Questo non è un Paese in declino

Lo spirito resistenziale ieri e oggi nelle parole di Eugenio Cefis ai partigiani dell’Ossola

da “Historia” n. 208 – aprile 1975

Quello di oggi è uno dei giorni più cari della mia vita perché superando un cammino di trent’anni mi porta quassù in mezzo ai ricordi della nostra giovinezza, delle nostre lotte, dei nostri compagni caduti. Voglio dirvi subito, però, che non torno qui con l’animo di coloro che partecipano ai raduni d’arma, alle giornate degli alpini o dei granatieri in congedo. Non torno, e credo anche di poter dire non torniamo qui con l’animo dei reduci che si dilettano e si commuovono solo nel ricordare le ore e gli episodi della guerra, l’agguato al ponte, la raffica in fondo al bosco, la sera prima dell’attacco, i silenzi della notte sotto le stelle, il gelo nelle baite sepolte dalla neve. Non siamo così vecchi per chiuderci dentro la cerchia dei ricordi, per vivere ripensando al passato; siamo ancora abbastanza in gamba per sentire il dovere di imparare e di guardare avanti. Così io torno qui per cercare tra voi, al cospetto delle nostre montagne, nel ricordo dei compagni caduti, il clima adatto a considerare il cammino percorso in tanti anni, trent’anni, e a riprendere lena e consiglio per il cammino da fare e per le scelte che ancora oggi, come allora, dobbiamo compiere. Se il primo pensiero è per i compagni caduti, devo dire che essi vanno onorati non soltanto perché erano coraggiosi, perché hanno sacrificato la vita per la patria e per la libertà, ma soprattutto perché si sono battuti per la buona causa. Anche tra i soldati di Radetzky, durante le cinque giornate di Milano, anche fra i paracadutisti francesi durante la guerra d’Algeria, c’erano uomini animati da grande coraggio. La loro lotta andava però in senso contrario a quello della storia e il loro valore militare non era illuminato da valori civili, da valori universali. Avere scelto volontariamente la strada della lotta e avere lottato per una causa giusta, cioè per cacciare i tedeschi e per abbattere il fascismo, è la nostra fierezza. Ma è a questo punto che l’esperienza degli anni successivi deve portarci a riesaminare le posizioni e le scelte d’allora. Allora a molti di noi era parso che fosse sufficiente prendere la strada della lotta. Avevamo solo vent’anni e c’era da combattere contro l’oppressore nazifascista; pareva che non ci fosse tempo nè necessità di fare politica, di fare scelte politiche. In realtà, le cose non stavano così; il problema era troppo complesso per essere posto nei termini semplici come potevamo vederlo allora noi giovani di anni e di esperienza. Poi, lo abbiamo capito. Abbiamo capito, abbiamo toccato con mano che non si era trattato soltanto di cacciare i tedeschi. Fare appello al popolo, destare gli italiani alla politica e alla democrazia, imprimere profondamente nella vita italiana due valori fondamentali del nostro tempo, la giustizia e la libertà, questo è stato il carattere fondamentale della Resistenza. Non si era trattato soltanto di cacciare il fascismo e di riprendere il cammino tornando al punto di partenza, all’Italia di prima del 28 ottobre 1922, alle strutture del paternalismo e dell’ingiustizia sociale che avevano generato e sorretto il fascismo; il problema era quello di andare avanti, di imparare dal passato a preparare su nuove basi l’avvenire della nostra Patria. Per capire come mai tanti uomini distintisi nelle giuste lotte di quegli anni abbiano poi preso una strada sbagliata; per capire come mai tanti ufficiali francesi valorosissimi nella Resistenza siano poi andati a combattere e a torturare gli algerini bisogna considerare il limite delle loro scelte: erano scelte vecchie. Essi avevano combattuto nella Resistenza limitandosi a considerarla un aspetto tecnicamente diverso dalla lotta tradizionale contro i tedeschi e non ne avevano capito il carattere di lotta di popolo in nome di valori universali. Come dice la vecchia canzone partigiana «nella notte ci guidano le stelle». È alla luce di questi valori fondamentali di giustizia e di libertà che dobbiamo considerare il cammino percorso, le scelte fatte, gli errori commessi e cercare, ancor oggi come allora, la nostra strada. Non è oggi il caso di riaccendere le polemiche del tempo drammatico quando il mondo era dentro il vicolo cieco della guerra fredda e le incognite e le polemiche erano profonde anche tra gli uomini della lotta contro i tedeschi e contro i fascisti. È a quei valori del 1945, alla necessità della pace, alla giustizia, alla libertà che dobbiamo riferirci per giudicare il passato e per fare le scelte di oggi e quelle di un domani sempre più impegnativo e difficile. Il richiamo a quei valori non può essere per noi un semplice omaggio ai principi di giustizia, di libertà e di democrazia che abbiamo cercato di affermare con la nostra lotta nella Resistenza. L’esperienza di questo trentennio sta ad indicarci che oggi, molto più ancora di quando avevamo vent’anni, il nostro dovere è quello di far politica e di esortare gli italiani alla politica se vogliamo che i valori per cui abbiamo combattuto possano trionfare nel nostro Paese. Non dobbiamo ripetere l’errore che la nostra inesperienza giovanile ci ha portato a compiere trent’anni fa, quando ritenemmo che la vittoria sul nazifascisino potesse essere sufficiente per avviare l’Italia sul cammino di una vera democrazia sottovalutando gli ostacoli che forze potenti avrebbero frapposto all’affermazione di una maggiore giustizia sociale e di un regime di effettiva libertà per tutti. Stare alla finestra, cedere alla tentazione di uno sterile moralismo o a quella della politica di Ponzio Pilato, significa oggi assumere una pesante responsabilità; la responsabilità di quel qualunquismo, che è il parente più stretto del fascismo. La libertà politica è un bene essenziale, ma per difenderla non basta andare alle urne di quando in quando; bisogna che ognuno di noi porti il suo granello di sabbia al consolidamento della democrazia, alla modernizzazione delle strutture, alla ricerca di un nuovo modo di far politica nel quadro della Costituzione repubblicana. In questo momento da molte parti vengono discorsi pieni di pessimismo sulle sorti del nostro Paese; timori di crollo economico diffondono insicurezza e paura tra i gruppi sociali e una venatura di rinuncia rassegnata sembra contagiare alcuni strati dell’opinione pubblica. Eppure a mio parere il malessere che si avverte è la naturale e logica conseguenza della fase di rapido e diffuso cambiamento che hanno conosciuto i costumi e la vita del nostro popolo. Non si partecipa a un processo di trasformazione che ha inciso profondamente sulla vita, sulle abitudini e sui problemi di tutti noi, come singoli e come collettività, senza risentirne le intime e talora dolorose contraddizioni e senza pagare il costo di scelte che modificano i tradizionali rapporti tra individui e tra gruppi. So bene che si teMe anche che la crisi economica possa trasformarsi in crisi politica, addirittura in crisi delle istituzioni e in pericoli per la libertà e la democrazia su cui si regge il nostro sistema politico. Mi perdonerete se a questo proposito esprimerò un’opinione che è sorretta solo dall’esperienza di una lunga responsabilità nel mondo industriale. Un Paese che attraversa una crisi economica non è un Paese in declino se riesce a prendere coscienza delle esigenze che ha di fronte e a predisporsi ai mutamenti che esse richiedono. È assurdo pensare che un Paese possa perdere la sua libertà per una crisi della bilancia dei pagamenti; ed è ancora più assurdo pensarlo per un Paese come l’Italia di oggi, che ancora lavora e risparmia, ma soprattutto al cui interno esistono larghe masse e organizzazioni sicuramente orientate in senso democratico. E qui dobbiamo ricordare un’altra lezione di allora, quella del carattere unitario della lotta. La Resistenza è andata avanti perché era unita e popolare. Oggi, superate le posizioni della guerra fredda, dobbiamo operare efficacemente per mantenere e stimolare una sempre più ampia partecipazione popolare alla difesa e alla affermazione di quei valori che abbiamo conquistato con le lotte della Resistenza. Oggi possiamo ricordare con fierezza la capacità di ideali manifestata da queste valli e da tanta parte della nostra terra in quegli anni, ma non dobbiamo dimenticare che la situazione di allora era tale per cui una parte del Paese restò indifferente o estranea a quegli ideali. Così dobbiamo oggi rilevare con amarezza che il qualunquismo non solo sopravvive ma viene sfruttato da forze notevoli che puntano ancora, come dimostrano le bombe, al ritorno della guerra fredda. Quelli delle bombe non mirano tanto a far tornare il fascismo, che è cosa davvero impossibile. Vogliono soprattutto che l’Italia torni indietro, che torni alla guerra fredda, quando la minaccia dei pericoli ad una libertà amministrata da pochi bloccò lo slancio del Paese verso un progresso caratterizzato da una maggiore giustizia sociale. Alla luce di questi pensieri, le conclusioni, le scelte sono semplici. Per noi si tratta di andare avanti, ancora avanti secondo le lezioni del 1945 che ci esortano alla politica, ai principi di giustizia sociale e di libertà, a uno sviluppo capace di equilibrare modernamente la vita e il lavoro nelle città e nelle campagne, alla visione unitaria degli obiettivi e allo sforzo solidale per raggiungerli. Vorrei concludere questo nostro incontro ricordando alcune significative parole di Enrico Mattei al convegno della Federazione Volontari della Libertà; molti di noi erano presenti; erano già passati parecchi anni dall’inizio dell’esperienza democratica; cominciavano ad affiorare le prime delusioni. Ma Mattei ci ammoniva: «Noi continuiamo a credere nell’avvenire del nostro Paese, abbiamo fede nelle sue possibilità di miglioramento, nelle sue capacità di sviluppo e di progresso, sentiamo il dovere di lavorare, impegnando tutte le nostre forze per costruire giorno per giorno l’edificio della libertà e della giustizia, in cui vogliamo vivere in pace e che soprattutto vogliamo preparare per le nuove generazioni».

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