Cefis si racconta

3 settembre 1991
Intervista di Giuseppe Locorotondo per l’Archivio storico dell’Eni

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…membro del comando del Corpo Volontari della Libertà nel quale rappresentava la Democrazia Cristiana. Infatti già allora c’era la lottizzazione: è assurdo che dopo cinquant’anni ci sia ancora qualcuno che se ne meraviglia. Questa è una repubblica nata dalla Resistenza: era già quindi lottizzata allora.

Come mai Mattei fu fatto comandante se non aveva alcuna esperienza militare e aveva fatto soltanto un ridotto servizio di leva da soldato semplice?

Nessuno aveva esperienza militare. L’unico che, in un certo senso, se ne intendeva era il gen. Cadorna, che però contava dallo zero all’indietro e per giunta poteva vantare solo esperienza di guerra normale, non di guerra partigiana. D’altra parte, siccome bisognava superare gli obiettivi, direi, a corto raggio ed immediati delle singole formazioni partigiane perseguiti proprio in funzione del colore politico di ciascuna, fu creato d’imperio il Corpo Volontari della Libertà, il quale si diede un comando generale formato dai rappresentanti dei partiti.

Il gen. Cadorna, paracadutato dal Sud, ne fu posto a capo e Mario Argenton, che rappresentava i liberali, ne divenne il capo di stato maggiore. Però neppure Argenton, bravissima e simpaticissima persona, aveva molta esperienza di guerra partigiana. Era se mai uno dei migliori fantini militari come i fratelli D’Inzeo. Era fratello di un mio compagno di scuola ed era nato, come me, a Cividale del Friuli. Quindi io l’ho conosciuto e potrei dire che proprio la vista di questo bel tenente dall’artiglieria a cavallo con la coda sul képi contribuì non poco a suscitare in me dell’attrattiva per la carriera militare.

Argenton era però famoso per meriti equestri, non per veri e propri meriti militari. Era tuttavia una persona molto seria ed era comunque un militare e perciò gli fu affidato l’incarico di capo di stato maggiore. I rappresentanti degli altri partiti si divisero, come tutti sanno, gli altri incarichi: uno divenne responsabile delle attività militari, Parri fu nominato vice comandante, Mattei – da quell’uomo pratico ed esperto che era – prese l’amministrazione con la cassa.

Mattei, quindi, più che un comandante fu un manager.

In seno al comando del Comitato di Liberazione Nazionale aveva la responsabilità del settore amministrativo e proprio perché aveva questo incarico io entrai in rapporto con lui.

In quale occasione?

Glielo spiego. All’inizio dalla Resistenza la Democrazia Cristiana non aveva ancora delle formazioni proprie. Le avevano i socialisti, i comunisti, il partito d’azione ed anche i liberali con Mauri, ma non esistevano ancora le formazioni della Democrazia Cristiana. Mattei diede allora di mano alla cassa ed avviò un’operazione di reclutamento ed una sorta di campagna acquisti (“Hai bisogno di soldi e sei lì che crepi di fame: ci penso io. Vieni con me e metti su i colori del partito nel quale ti riconosci, ossia della Democrazia cristiana”). E allora, nel corso della ricerca di persone da arruolare, ebbe anche contatti con me, avendo lo sguardo rivolto anche alla formazione da me comandata. Io però gli opposi sempre resistenza. Gli dissi sempre di no, perché – non so se queste cose interessano: forse interessano come curiosità – per una serie di fortunate coincidenze, io e la mia formazione non avevamo bisogno di niente e di nessuno. Avevamo infatti tutto, anche quello che mancava alle altre formazioni. Era accaduto infatti che durante il primo anno della Resistenza, in Pianura Padana e sugli Appennini ed anche un po’ in Toscana, c’era stato tutto un pullulare di missioni di servizi informazioni (francesi, inglesi, americani, italiani dell’esercito badogliano – come si chiamava allora – ed anche iugoslavi). C’erano tutti: erano venuti a levar acqua sul mulino, perché – come si sa – in guerra le linee strategiche delle operazioni sono basate sulle informazioni che si hanno sul nemico e chi ha più informazioni sul nemico ha in partenza più capacità di influire sulle scelte. La lotta tra queste missioni era feroce. Ad un corto momento, in preparazione del colpo finale, gli alleati, soprattutto gli americani che erano quelli più tagliati fuori dai servizi informazioni, decisero di mandare una loro missione alleata di controllo su tutte le altre missioni. Quindi, con il pragmatismo che li distingue, gli americani incominciarono a studiare le caratteristiche delle zone e delle formazioni, con lo scopo di individuare quelle ottimali per l’operatività della missione. La zona doveva essere un po’ in montagna, doveva avere rapide vie di accesso a tutta la Pianura Padana e doveva essere in posizione piuttosto centrale (non andavano quindi bene il Friuli o la Valle di Susa). La formazione partigiana da scegliere, tra quelle operanti in tale zona, doveva essere capace di difendere questa missione e di dare un efficace apporto operativo: doveva essere cioé una formazione seria. E così la scelta cadde su di noi perché noi operavamo praticamente da Novara fino alla Svizzera. Quindi, in caso di pericolo, potevamo ritirarci immediatamente in Ticino. Potevamo arrivare anche in tempi relativamente brevi a Novara, a Torino ed a Milano. Eravamo inoltre una formazione apartitica, perché sia Di Dio che io e gran parte dei quadri eravamo ufficiali in servizio permanente effettivo che, dopo l’8 settembre, non ci eravamo presentati in caserma. Per tutte queste ragioni la nostra formazione, che aveva – diciamo – il possesso del terreno prescelto, sembrò la più adatta al compito che le si voleva assegnare. E allora, da quel momento, non ci mancò più niente. Non solo le armi, comprese le armi anticarro, ma neppure le munizioni, il dentifricio, la marmellata, la carta igienica, le sigarette e la seta dei paracaduti che erano un’ottima merce di scambio per riso, burro, ecc.. Di conseguenza, all’efficacia dell’azione di proselitismo svolta da Mattei mancava, per quanto ci riguardava, la condizione del bisogno.

Ho letto che il suo primo incontro con Mattei avvenne in una chiesa.

Io venivo molte volte a Milano per parlare con lui. Ci vedevamo in una chiesa, nella cui canonica si riuniva qualche volta anche il comando generale. Il parroco era un sacerdote amico e la chiesa era nei pressi di corso Buenos Aires. I contatti furono frequenti: insomma ci incontrammo non meno di cinque o sei volte e non più di dieci o dodici volte. Quando Mattei fu arrestato, fu liberato da Rino Pachetti, che comandava una nostra formazione e che più tardi divenne la sua guardia del corpo.

Forse, proprio l’aver sempre resistito alle sue avances, creò in Mattei un certo rispetto verso di me. Avrei anche potuto, con i problemi di quei tempi e con i bisogni che c’erano, dire di sì alla sua offerta e prendere dei soldi, ma in tal modo mi sarei ridotto ad essere un dipendente. E così, nella reciproca autonomia, rimanemmo in buoni rapporti. Ci vedevamo di tanto in tanto e continuammo poi ad incontrarci anche dopo la Liberazione.

È vero che la nomina di Mattei a commissario straordinario dell’Agip fu propiziata o raccomandata da Ferrari Aggradi?

No. Ferrari Aggradi era molto amico di Mentasti (Mentasti era il De Gasperi del Nord) e del fratello di De Gasperi ed era membro del Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, quando c’era la Commissione Economica Alleata per il Nord. Questa era presieduta da Cesare Merzagora ed ebbe, tra le altre incombenze, quella di provvedere al commissariamento delle aziende statali ex fasciste. I commissari furono scelti in base alle loro capacità professionali.

Mattei fu mandato all’Agip Mineraria Alta Italia. La carica era stata prima offerta ad Argenton, ma Argenton, da quel galantuomo che era, l’aveva rifiutata dicendo; “Io sono un ufficiale di artiglieria, non mi intendo di problemi di quel genere. Perché non ci mettete Mattei che è un imprenditore chimico e quindi è del settore? Se volete accontentare me (adesso per metà invento e per metà dico la verità) nominatemi, come si può dire, responsabile della liquidazione del Corpo Volontari della Libertà e poi datemi una promozione o qualche altra cosa per meriti di guerra. Così, io concludo la mia carriera militare e me ne vado in pensione”. Questo è il fatto.

Ho letto che Mattei conobbe durante la Resistenza Vincenzo Cazzaniga, il quale gli avrebbe mostrato la mappa dalle zone del Nord Italia indiziate di racchiudere giacimenti di idrocarburi. Se l’episodio fosse vero sí potrebbe far risalire alla visione di quella mappa la principale ragione della famosa disobbedienza di Mattei all’ordine di liquidare il settore ricerche dell’Agip. Ne sa qualcosa?

Non ne so assolutamente nulla. Ho letto anch’io quella notizia, ma non ne so proprio nulla.

Secondo lei, perché Mattei si oppose a quell’ordine? È vero che furono i tecnici dell’Agip a convincerlo che non era il caso di procedere alla liquidazione?

Fu soprattutto l’ing. Zanmatti, l’ex capo dell’Agip NordItalia. A proposito, Mattei mi raccontò una volta che nei primi tempi, recandosi negli uffici dell’Agip, vi trovava sempre un vecchietto (allora un uomo di quarantacinque anni ci sembrava un matusalemme) che aspettava pazientemente di essere ascoltato dal commissario straordinario perché voleva conoscere la sua sorte: non sapeva infatti se doveva essere licenziato o no. Era Zanmatti. Appena i due uomini si conobbero cominciarono a simpatizzare. Fu Zanmatti che gli fece sapere e vedere tutto. Gli disse: “Guardi che siamo arrivati proprio molto vicini a scoperte importanti. È questione di settimane o al massimo di mesi, ma io le garantisco che a Caviaga, a Ripalta e in quelle zone lì il metano c’è. Se poi c’è o non c’è anche il petrolio, questo lo sapremo dopo”. Fu dunque Zanmatti a dare a Mattei questa sicurezza tecnica.

Avendolo conosciuto ed apprezzato, Mattei decise allora di avvalersi della collaborazione di Zanmatti?

Sì, Zanmatti, finché visse Mattei, gli fu sempre vicino e fu praticamente il punto di riferimento per la valutazione e per l’attuazione di tutte le iniziative minerarie del gruppo in Italia e all’estero. L’ultima parola su di esse, anche se espressa in via non ufficiale, era quella di Zanmatti.

Zanmatti continuò ad avere cariche nel gruppo anche dopo la morte di Mattei?

Sì, sì, anche dopo essere andato in pensione, continuò ad avere cariche sociali. Mattei aveva veramente totale fiducia nelle sue capacità tecniche, ma anche io, a consuntivo, posso giudicare come ottime e altamente professionali le sue qualità. Tra queste vi era anche quella di essere un galantuomo, una persona dabbene. Zanmatti era un uomo di buon senso ed anche un uomo affascinante.

Cosa sa dei contrasti di quel periodo tra Mattei ed il resto della dirigenza della società ricostituitasi a Roma prima ancora del 25 aprile?

Quella dirigenza vedeva in Mattei un outsider venuto – come si diceva allora – a Roma “con il vento del Nord”. Per essa egli rappresentava un corpo estraneo contro il quale si era creato subito un fronte ostile. Io però non conosco, o non ricordo ora, né i nomi delle persone, né le questioni concrete che allora avevano dato origine ai contrasti. Io cominciai ad occuparmi dei problemi dell’Agip soltanto dopo la morte di Mattei. Prima avevo seguito soltanto quelli della Snam e dell’Anic e, se mai, quelli del settore minerario dell’Agip e, comunque, dopo che Mattei aveva acquistato il pieno controllo della società. Nei colloqui avuti con lui in quel periodo avevo appreso che c’era stata una guerra acerrima, poi conclusa con la sua vittoria. Io anzi entrai nel gruppo proprio perché, ad un certo momento, egli si era reso conto che solo la sua autorevole presenza presso la sede centrale dell’Agip avrebbe potuto garantirgli la condizione migliore per portare avanti la sua politica. E poiché come presidente della Snam doveva affrontare e risolvere il problema del finanziamento della costruzione dei metanodotti, mi chiamò e mi disse: “Io devo stare a Roma almeno tre giorni alla settimana. Perché non mi vieni a dare una mano e non segui tu la Snam?”. “Io lavoro – gli obiettai – io ho un mestiere”. Ma lui insistette: “Vieni almeno una mezza giornata e segui soprattutto il settore finanziario e il settore acquisti” (sospettava che lì le cose non andassero come dovevano). Alla fine mi lasciai convincere e fui nominato membro del consiglio di amministrazione e poi vice presidente.

Ricorda che anno era?

Ricordo che era l’anno in cui si svolsero le olimpiadi a Stoccolma, o conunque in un paese del Nord, ed era l’anno in cui doveva nascere mia figlia: era il 1952.

Che situazione trovò alla Snam?

Alla Snam c’era molto da fare. Quando arrivai io la società aveva soltanto qualche geometra e pochi operai. Di ingegneri, a parte quelli che si occupavano del collegamento dei pozzi, ce n’era uno solo in organico ed era il povero Campanini, rimasto la bandiera del gruppo come primo ingegnere dell’Eni. Gli altri (una trentina) erano tutti giovani borsisti scelti in base ai risultati ottenuti all’Università. Per quattro o cinque mesi questi frequentavano dei corsi in baracche sui campi metaniferi dalla Pianura Padana. Poi – per altri sei o sette mesi – venivano mandati a fare degli stages negli Stati Uniti, presso le varie società di ingegneria. Quelli che poi venivano assunti ricevevano incarichi e responsabilità. Si era quindi venuto a formare un gruppo di galletti, tutti giovanissimi, tutti ambiziosi, tutti con l’orizzonte aperto. Invece, però, di mettersi a lavorare, spesso si mettevano a litigare tra di loro. Ecco, ci voleva qualcuno che li tenesse in riga e, soprattutto, che portasse avanti la soluzione dei problemi. E così cominciai ad occuparmi della Snan, prima per mezza giornata e poi per l’intera giornata. Poi mi occupai – come ho detto – anche dell’Agip, ma solo dell’Agip Mineraria e dei reparti del Nord. Del settore commerciale e del settore estero dell’Agip cominciai ad interessarmi molto più tardi.

Lei – come ha detto – aveva mantenuto i contatti con Mattei anche dopo la Liberazione: cosa sa della campagna elettorale di Mattei eletto deputato nelle liste della D.C. nelle elezioni del 18 aprile del 1948?

A proposito di quelle elezioni, lui stesso mi raccontò una volta da chi gli era venuto uno dei più efficaci aiuti nel corso della campagna elettorale. In quel periodo fare i comizi in provincia di Milano non era facile, perché fuori Milano erano quasi tutti comunisti. Mattei aveva perciò bisogno di gente che con un camion seguisse la sua macchina e durante i comizi lo difendesse dai sassi e dalle bastonate. E allora a chi si rivolse? Si rivolse ai miei partigiani. Furono gli ex partigiani del mio raggruppamento a scortare e proteggere Mattei fino alla sua elezione a deputato. Il che avvenne tramite Giovanni Marcora che io stesso gli avevo presentato. Gruppi di ex appartenenti alle nostre formazioni, reclutati nelle zone in cui avevano operato e in cui risiedevano, partivano dall’Ossola, scendevano lungo il Lago Maggiore e costeggiavano parte della sponda piemontese, poi scendevano fino alla zona dell’alto Po pavese, arrivavano fino a Milano e poi risalivano verso la zona del lago di Como e ridiscendevano verso Milano e, attraverso Legnano, Busto, Sesto, Varese, si riunivano al Lago Maggiore, sponda lombarda. Erano tanti, soprattutto nelle zone dell’alto Milanese. Essi, la sera – un po’ perché non avevano niente da fare, un po’ perché erano figli di disoccupati, un po’ perché Mattei bene o male offriva loro la cena, un po’ perché potevano ancora menare le mani – gli assicurarono il servizio di protezione. E fu per questo che le prime assunzioni da parte della Snam furono fatte proprio tra la gente di Busto e di Legnano.

Lei seguì le varie fasi della battaglia portata avanti da Mattei, con il sostegno di Vanoni, per assicurare all’Agip il monopolio della ricerca nella Pianura Padana?

No. So però che Mattei faceva elaborare le sue ideo dal prof. Luigi Faleschini, allievo del prof. Boldrini e docente all’Università Cattolica. Faleschini, che era un uomo di grande intelligenza e di grande fantasia, elaborava le idee che gli proponeva Mattei e ne ricavava varie soluzioni tra le quali poi Mattei sceglieva quella che riteneva più adatta e più idonea allo scopo che voleva raggiungere. Per quanto riguarda in particolare il monopolio nella Valle Padana e la legge istitutiva dell’Eni, che di quello fu la cornice, i veri artefici furono Mattei, Vanoni e Stammati, allora direttore generale del ministero del Tesoro. Questo è almeno quello che io ricordo, sulla base peraltro di cose vi…

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Boldrini ebbe quindi un ruolo molto importante, almeno all’inizio, come tramite diretto e indiretto tra Mattei e i politici importanti?

Sì, sì. Ed ebbe, come ho detto, un ruolo importantissimo nella creazione del “signor” Enrico Mattei, di “mister” Enrico Mattei.

Ed anche nell’inculcargli convinzioni ed aprirgli orizzonti.

Per forza. Mattei non conosceva tante cosa. Ignorava, per esempio, i problemi del Terzo Mondo. Fu Boldrini che mise in contatto Mattei con Giorgio La Pira. Fu lui che lo introdusse negli ambienti di quella sinistra illuminata (in primo luogo della Democrazia Cristiana) che poi si è persa nel tempo.

Il principale rappresentante della quale fu Ezio Vanoni.

Vanoni aveva una vera passione per Mattei. Ma anche De Gasperi stimava Mattei. Vanoni sosteneva e copriva Mattei presso il presidente del consiglio e divenne poi, come Boldrini con Fanfani, il trait d’union di Mattei con De Gasperi, del cui fratello Mattei era stato buon amico fin dal tempo della Resistenza a Milano. Fu Vanoni a determinare molte delle condizioni che portarono al successo, in sede politica, dell’attività industriale di Mattei nella sua fase più felice.

Restando nell’ambito dei rapporti di Mattei con i politici, vorrei chiederle cosa sa della corrente democristiana della Base che Mattei creò o, meglio, finanziò.

No, no. Creò, creò. Un giorno egli mi chiamò e mi disse: “Amico, in ogni città del Nord ci sono tuoi ex partigiani. Bisogna cercare di orientarli politicamente. Datti da fare”. Bisogna ricordare che i partigiani che erano venuti ad ingrossare le nostre formazioni provenivano in gran parte dalle province di Novara, di Varese (Busto Arsizio, Gallarate), ossia da zone bianche, vere roccaforti del cattolicesimo. Essi avevano disatteso il bando che ingiungeva loro di presentarsi alle armi e si erano lasciati persuadere dai parroci o dai sacerdoti dei loro luoghi di origine a venire ad arruolarsi tra i partigiani sotto le nostre insegne. Tra di loro c’era soltanto una minima percentuale di operai di fabbrica. Quindi, per degli ufficiali in servizio permanente effettivo quali eravamo noi, essi costituivano una materia prima facilmente plasmabile perché erano disposti ad accettare la disciplina, che conoscevano già in famiglia ed in parrocchia. Erano ragazzi politicamente ancora “vergini”. Essi, tornando a casa, si erano, nella maggior parte (a cominciare da Giovanni Marcora), iscritti alla Democrazia Cristiana. E quindi, quando Vanoni – convinto che per poter portare avanti i suoi disegni politici doveva poter contare su una propria corrente in seno alla D.C. – chiese a Mattei di dargli una mano, Mattei si rivolse a me ed io a Marcora e ad altri ex partigiani della zona dell’alto milanese. Le cose andarono così. Fu fatto un po’ l’inventario dei nostri ex partigiani e si cercò di sapere quanti di loro erano iscritti alla Democrazia Cristiana, quante erano le sezioni in cui essi contavano, quante erano le sezioni che potevano essere conquistate dai nostri ex partigiani già iscritti o che potevano essere indotti ad iscriversi alla D.C.. Partendo così dalle sezioni controllate e quasi pianificando un’operazione di tipo militare, si operò in modo da estendere il controllo a macchia d’olio anche alle altre sezioni. Questa fu l’operazione “Base” in Lombardia. Poi Giovanni Marcora, con la sua eccezionale intraprendenza e con le sue formidabili doti di organizzatore, riuscì ad acquistare adesioni anche in altre regioni (per es. in Sardegna, in Campania, in Sicilia), per cui, ad un certo momento e dopo la morte di Vanoni, la Base (che comunque Mattei non aveva creato per sè) fu uno strumento in più nelle sue mani, che però, con il tempo, gli cominciò a prendere la nana. E da quel momento, dalla Base gli vennero più rogne che vantaggi. Il fatto, per esempio, che essa fosse finanziata da lui o che fosse o sembrasse manovrata da lui gli procurò l’inimicizia di Fanfani, soprattutto quando vennero a farne parte alcuni democristiani sospetti di filo-comunismo, che poi furono espulsi dal partito (Aristide Marchetti, Lucia Magri e Beppe Chiarante).

Mattei, a causa della Base, suscitò non solo l’ostilità di Fanfani, ma anche le preoccupazioni del futuro pontefice Paolo VI. Italo Pietra ha ricordato un rabbuffo rivolto a lei ed a Mattei dall’allora arcivescovo di Milano.

Sì, in un incontro avuto nella sede dell’arcivescovado il cardinale Montini mi disse papale papale:“ Io vi faccio sconunicare tutti e due.”

Questo a causa delle idee troppo progressiste di alcuni uomini della Base?

Sì, secondo Mons. Montini, la Base era formata da comunisti bianchi, ossia da uomini di orientamento politico troppo di sinistra. L’orientamento ufficiale democristiano allora coincideva più o meno con quello dei comitati civici e dell’Azione Cattolica. Gli uomini della Base si collocavano invece ai confini della cittadella democristiana ed operavano spesso da battitori liberi. E si permettevano di operare in tal modo perché c’era l’ossigeno che veniva da Mattei: era un problema politico delicato. Fino all’istituzione del ministero delle Partecipazioni statali e all’avvento di Giorgio Bo le tensioni a causa della Base con la corrente fanfaniana, che aveva vinto il congresso di Napoli, furono molto forti.

Ha detto che dopo la morte di Vanoni la corrente prese la mano a Mattei. Cosa ha inteso dire?

Ricordo che venivano qui alcuni esponenti della corrente, che poi sono diventati personaggi importanti (Galloni per esempio), e proclamavano: “Noi non possiamo accettare di essere condizionati nelle nostre scelte politiche. Ci chiedete di votare questo provvedimento, ma neanche per sogno. Mattei non può dirci quello che dobbiamo fare. Noi abbiamo le nostre idee e le sosteniamo alla luce del giorno”. Non era proprio possibile: prendere soldi senza qualche contropartita era una pretesa assurda, tanto più che le pochissime richieste non riguardavano problemi e/o giochi politici, ma problemi e indirizzi di natura prettamente economica di grande importanza per l’Eni.

Passiamo ora ai rapporti di Mattei con i suoi collaboratori. Come si comportava Mattei con loro?

Mattei aveva una grande virtù: possedeva un self-control stupendo. Mai, neanche nei momenti di più alta tensione, alzava il tono della voce. Il Mattei presentato nel film di Rosi, il Mattei scamiciato, che si sbraccia, che beve birra, ecc., non è un personaggio reale. Un personaggio così non è mai esistito.

Ed oltre al self-control, Mattei aveva un’altra dote. Con i propri collaboratori aveva la pazienza di Giobbe. Lei poteva andare da lui e parlargli, avere il suo parere e poi ritornare a parlargli ancora e dirgli: “Ci ho ripensato. Forse non ha considerato questo e quello”. E lui ascoltava con una pazienza enorme. Alla fine, chiunque si rendeva conto che non era un uomo che amava circondarsi di yes-men. Almeno così si è comportato sempre con me.

Quando era lui a chiedere dei pareri, ne teneva poi conto o decideva sempre di testa sua?

No, no, no. Molte volte anzi diceva:“Fa tu. Ciò che fai tu è ben fatto”. E quando era lui a darti un ordine, non diceva neanche: “Dammi poi conto di ciò che hai fatto”. E lui mi affidò tante volte compiti importanti da svolgere in Italia e all’estero. Cito un solo caso. Bisognava costruire un oleodotto in Egitto tra Suez e Il Cairo. Era appena salito al potere Nasser. Andai giù con Girotti. Io ero il vicepresidente della Snam e Girotti ne era il direttore generale. Avendo avuto pieni poteri, definimmo il contratto, stabilimmo il prezzo e le condizioni. Ricordo che a quel punto mandai a Mattei un telegramma: “Abbiamo concluso”. Punto e basta. Gli riferii poi i particolari dell’accordo soltanto dopo il ritorno a Rona.

Si può dire che talvolta Mattei prendeva decisioni non ben ponderate?

Al contrario. Anzi la terza qualità di Mattei (che, secondo me, faceva premio sulle altre) era la sua eccezionale capacità di meditazione e di ponderazione prima di prendere decisioni. Sembrava in questo un gesuita. Non mi risulta che abbia mai preso una importante decisione a tamburo battente. Prima di prendere una decisione aveva la costanza e la forza, quasi fosse appunto un membro della Compagnia di Gesù, di fissare a lungo la sua attenzione, senza farsi distrarre, su quello che si preparava a decidere. E questo poteva durare tre giorni, una settimana, un mese. Maturata poi la decisione, da quel momento era un bulldozer. Non lo fermava nessuno: non c’era ostacolo o difficoltà che gli facesse cambiare idea. Questo era l’uomo che io ho conosciuto.

E nelle relazioni con il mondo esterno (negli incontri pubblici e nei contatti personali) come si comportava? È vero che in certe situazioni era un po’ impacciato e che nei discorsi e nelle interviste era un po’ imbranato?

Mattei aveva una straordinaria abilità nelle relazioni pubbliche. Sì, era imbranato nei discorsi in pubblico (anche perché glieli facevano gli altri e lui li doveva leggere), ma nei colloqui a quattr’occhi, attorno ad un tavolo, durante le colazioni o le cene, era non solo convincente, ma anche divertente perché era ricco di aneddoti.

Io ricordo le serate trascorse con lui nell’albergo Eden, quando, venendo da Milano senza mia moglie, andavo a cenare da lui. C’era sempre Boldrini e c’erano spesso Ferrari Aggradi o Gronchi o Vanoni o Tambroni o uomini politici di altri partiti. Tutte le sere ne aveva qualcuno a tavola e, dopo cena, ci si intratteneva nella hall dell’albergo o nel suo salotto e si andava avanti nella conversazione.

Ecco, ogni industriale ha le sue doti particolari. Bene. Mattei aveva quelle del venditore nato. Mattei aveva fatto il commesso viaggiatore. Aveva venduto pellame, poi vernici, ecc.. Con la stessa tecnica e con la stessa efficacia si era messo più tardi a vendere l’idea del monopolio statale nelle ricerche di idrocarburi nella Pianura Padana. Aveva la dote del face-man, quella dote che avevano allora in eguale ed eccezionale misura soltanto altre due persone nel mondo del petrolio: il numero uno di allora della Esso internazionale, Mr. Stott, ed il dr. Vincenzo Cazzaniga, presidente della Esso Italia. Cazzaniga era un’altra forza scatenata della natura come venditore. Egli era laureato e si era formato a dovere alla scuola delle aziende dei grandi gruppi multinazionali. Aveva quindi un background molto diverso da quello di Mattei, la cui capacità di relazioni pubbliche e di rapporti con la gente, basata sopra eccezionali doti naturali, era stata poi affinata dai benefici dell’amicizia e della frequentazione di Boldrini. Ne era venuta fuori un’abilità di persuasione che faceva pensare alle spire di un serpente che avvolge e frastorna l’interlocutore.

Tale capacità era inoltre potenziata dalla conoscenza che Mattei aveva della psicologia umana. “Ricordati – mi diceva – che la parola più importante, nella trattazione degli affari, è quella che viene detta sulla porta al momento del commiato. È allora che il tuo interlocutore ti dice la parola che ti farà capire quello che vuole veramente ed è allora che anche tu gli dici quella parola, che magari lui, lì per lì non capisce, ma intanto tu gliel’hai detta. Sta’ attento a non dirgliela prima, quando siete ancora seduti, perché puà avere il tempo di ripensarci, di tornarci su e di dirti di no”. Questo era l’uomo.

Ha detto che Mattei aveva ogni tanto ospite a cena Ferrari Aggradi. Ma Ferrari Aggradi (e torniamo ai rapporti con i politici), quando fu per la prima volta ministro delle Partecipazioni statali, inviò delle direttive agli enti di gestione, il cui contenuto non poteva – suppongo – fare molto piacere al presidente dell’Eni.

Sono tutte storie. Alcune volte scriveva una lettera personale di scuse e ritirava il provvedimento. Mattei mi diceva: “Ho ricevuto una lettera da Ferrari Aggradi. Gliela devi rimandare perché dev’essere riscritta”. Ed era Mattei che scriveva il testo che poi Ferrari Aggradi faceva proprio a modifica della lettera da lui scritta in precedenza.

Ma forse questo accadeva anche con il ministro Giorgio Bo, il quale, oltre che amico personale di Mattei, era stato a lungo consulente dell’Agip.

Io ho avuto sempre un grandissimo rispetto per Giorgio Bo. Mattei otteneva tutto da Bo, perché Bo gli era affezionato e credeva in Mattei. Mattei non si sarebbe mai permesso di stracciare una lettera in faccia a Bo, ma il Bo era una persona di grande dignità. Ricordo che le rare volte in cui era costretto a chiedere un favore (per es., quello di far assumere una persona da una società del gruppo o di far distaccare una delle nostre segretarie presso il ministero) balbettava quasi e diventava rosso come la sua cravatta.

Ferrari Aggradi no. Ferrari Aggradi era un uomo senza carattere, del quale Mattei si fidava poco proprio per il suo carattere debole. Una volta incaricò Faleschini di riportargli un documento dicendo: “Di’ a Ferrari Aggradi che ha scritto una cazzata”. Ferrari Aggradi era anche lui, a modo suo, affezionato a Mattei: il fatto è che egli è una mente economica di tutto rispetto, ma non è un uomo dalla grande personalità. Se fosse andato da lui – faccio per dire – il presidente della Shell o quel volpone del dottor Cazzaniga e lui avesse acconsentito ad una loro richiesta, ed avesse in conseguenza scritto determinate cose a Mattei, nessuno si sarebbe stupito se subito dopo si fosse scusato dicendo: “L’ho scritto, ma tu fa’ finta di non aver ricevuto il mio scritto.”

Però emanò e rese pubbliche, con un certo coraggio, delle direttive che invocavano “case di vetro” per gli enti di gestione e chiedevano a questi di predisporre bilanci più leggibili.

Mattei mi disse in proposito: “Non voglio adesso fare polemiche pubbliche, però va’ da Ferrari Aggradi e fagli una reprimenda su questa storia delle case di vetro”. Ed io andai ed eseguii l’ordine: avevo allora trentasette anni.

Ferrari Aggradi mi ricorda la donna innamorata che prendi a sberle, na che ritorna sempre a casa. Intendiamoci, Mattei non ha mai corrotto o tentato di corrompere Ferrari Aggradi: l’ha schiavizzato proprio. L’ha appoggiato in tutti i modi perché fosse nominato ministro, ma Ferrari Aggradi non ha nai contato molto in politica ed al governo. E non perché privo di capacità professionali, na perché privo, come ho detto, di carattere.

Forse l’unico uomo politico del quale Mattei ebbe una stima profonda e incondizionata fu Ezio Vanoni.

Sì, Mattei aveva una enorme stima di Vanoni, la cui morte lasciò in lui un vuoto davvero incolmabile. Vanoni era l’unico uomo politico che poteva dire a Mattei: “Mattei ti ho ascoltato, però per piacere non insistere. Questa cosa non si fa”. Mattei allora ne accettava totalmente il punto di vista e non se ne scostava neppure di un centesimo di millimetro.

È vero che Mattei dopo la morte di Vanoni cercò la protezione di un altro personaggio politico?

Non lo so e non lo credo, anche perché, tra l’altro, uomini politici come Vanoni non ce n’erano.

Per Vanoni Mattei aveva non solo stima, ma anche affetto. che uomo era Mattei dal punto di vista dei sentimenti?

Mattei era – come dicono i siciliani – una “ficuzza”. Fuori sembrava duro e spinoso, ma dentro era morbido e dolce. Lo dimostrano i rapporti che aveva con il personale (sembravano rapporti – direi – quasi da infante) e con gli amici. Non tradì mai un amico. Mai! Se qualche amico attraversava momenti difficili non era il tipo che dicesse: “Quello non l’ho mai conosciuto”.

Solo che tanto era di facile parola come venditore (e prudente nei rapporti professionali) quanto era riservato e pieno di pudore – quasi da signorina dell’Ottocento – nella sfera dei sentimenti personali. Arrossiva certe volte. Era molto gentile d’animo. Ecco perché dispiace veramente il modo in cui lo hanno presentato nel film, che è un modo che snatura una persona e genera, purtroppo, false impressioni in chi non lo ha conosciuto personalmente. E sono invece pochissime le persone che lo hanno potuto conoscere veramente bene.

Nell’operato di Mattei politica ed iniziative industriali marciarono spesso a braccetto. Dopo i successi conseguiti dalla Gulf in Sicilia, Mattei decise di avviare anch’egli iniziative economiche nell’isola, ma finì con l’essere coinvolto – si è scritto – nella cosiddetta operazione Milazzo. Cosa sa lei in proposito?

Non ne so niente. Non so né come avvenne, né se vi ebbe parte Mattei. Comunque i rapporti di Mattei con la classe politica ed industriale siciliana erano tenuti direttamente da lui con la sola collaborazione di Faleschini. Io sentii qualche spezzone di discorso. Mattei mi raccontava qualche cosa, ma io non ricordo niente e comunque non vi ebbi parte.

L’unica cosa che so di certo è che Mattei favorì la creazione della Sicindustria, ossia di una frazione dissidente della Confindustria in Sicilia, della quale divenne presidente l’ing. La Cavera, persona nota e simpaticissima che aveva sposato una bella attrice (che poi si suicidò gettandosi dalla finestra di un albergo) e che mi regalò quei due candelieri. Credo fosse un liberale di sinistra.

Mattei era stato favorevole all’apertura verso i socialisti, ma quando il centrosinistra diventò una prospettiva concreta, non sembrò molto entusiasta. Qualcuno ha detto che Mattei preferiva i governi deboli perché i governi forti potevano frapporre difficoltà alla realizzazione dei suoi progetti.

Certamente Mattei non amava gli indugi burocratici e gli ostacoli politici. Perciò quando un governo entrava in crisi mi diceva: “Non preoccuparti, finché il paese resta senza governo noi possiamo lavorare più spoditamente”. Per questo, quando sopraggiungevano le crisi di governo, era quasi contento. Potrebbe perciò avere un certo fondamento l’ipotesi di un atteggiamento preoccupato di Mattei nei confronti della prospettiva di governi stabili e forti, come si riteneva dovessero essere quelli di centrosinistra. I governi forti o duraturi potevano, infatti, non solo appoggiarlo e sostenerlo, ma anche frenarlo e condizionarlo ostacolando alcune sue iniziative o imponendogliene altre, magari non economiche.

Ma questo è un discorso complesso e difficile, che va oltre la persona e l’operato di Mattei, perché riguarda i rapporti di allora e di sempre tra gli enti pubblici economici ed il potere politico.

È vero: si tratta della grossa questione della conciliabilità tra l’autonomia imprenditoriale degli enti ed il potere di indirizzo del governo, che però vorrei lasciar fuori dalla conversazione per fare riferimento a situazioni ed a problemi concreti. Le chiederei quindi una sua valutazione in merito ai problemi creati dallo scontro di Mattei con le grandi compagnie petrolifere internazionali.

La lotta di Mattei e dell’Eni contro le compagnie petrolifere internazionali fu molto dura a causa della posta in gioco e della potenza economico-finanziaria di quelle. E neppure alcuni buoni rapporti personali (come quelli, per es., tra Mattei e Vincenzo Cazzaniga, presidente della Esso Italia) servirono a gettare un ponte fra le due sponde.

Sotto l’insegna che gli amici dei miei amici sono miei amici e che i nemici dei miei amici sono miei nemici si fecero cose veramente senza senso. Per fare qualche esempio, l’Eni andò a fare delle perforazioni in Sicilia soltanto perché la Gulf vi aveva scoperto del petrolio o costruì stazioni di servizio da un lato delle strade soltanto perché dall’altro lato c’erano quelle della Esso o della Shell (così, mentre quarant’anni fa sull’autostrada dei laghi e attorno al Lago Maggiore c’erano pochissimo stazioni di servizio, trent’anni dopo se ne contavano molte decine). E cose altrettanto stupide fecero le compagnie petrolifere straniere. Per esempio, noi avevano costruito una raffineria a Sannazzaro de’ Burgundi ed ecco la Shell costruirne un’altra nella stessa zona. Noi avevamo cominciato a costruire un oleodotto che partiva da Genova ed ecco le sette sorelle avviare la costruzione di un oleodotto che partiva da Trieste. E si potrebbero citare molti altri esempi.

Effettivamente si era venuta creando una spirale perversa a causa di una concorrenza molto forte che non poteva durare all’infinito.

Ugo La Malfa, che in privato si dichiarava amico intimo di Mattei, come ministro del Tesoro e del Bilancio fu uno dei più rigidi sostenitori della necessità che le società a partecipazione statale operassero nel mercato, in un regine di assoluta parità di condizioni e di piena libertà di concorrenza con le imprese private italiane e straniere. Ora, la parità di condizioni e la piena libertà di concorrenza comportavano che gli strumenti adoperati dagli altri potessero essere adoperati anche dall’Eni. E pertanto se un’impresa privata concorrente sovvenzionava un partito, l’Eni risultava penalizzato se non faceva altrettanto. Io ricordo che una volta Mattei scese per le scale saltando i gradini a quattro a quattro per la felicità di essere riuscito a dare cinquanta milioni al partito socialista di Nenni. Fino a quel momento era stata la Montecatini ad avere il monopolio dei finanziamenti a quel partito. Noi che stavamo entrando nella chimica, nei fertilizzanti, ecc., avevano bisogno, per contrastare la Montecatini, di rompere quel monopolio. Mattei fu dunque contento di aver potuto far entrare cinquanta milioni nelle casse del partito socialista, perché in tal modo aveva potuto acquistare “parità di condizioni” con il “concorrente privato”.

Queste possono sembrare oggi cose di un altro mondo, ma bisogna collocarle nelle circostanze di quel tempo. Si potrà allora comprendere benissimo cosa voleva dire Mattei quando affermava: “Io uso i partiti come i taxi”. Se infatti i concorrenti prendevano il taxi, l’Eni non poteva andare in bicicletta o, addirittura, a piedi. Se nel mercato noi dovevamo operare nelle stesse condizioni delle imprese private, era giusto che non fossimo in alcun modo favoriti, ma era anche giusto che non fossimo in alcun modo penalizzati.

L’Eni era dunque costretto ad assicurarsi appoggi politici per poter combattere ad armi pari, magari anche sbagliando, i concorrenti e gli avversari italiani e stranieri.

Proprio così. Ma, a proposito di sbagli, bisogna ricordare che le sette sorelle perseguivano un disegno molto preciso. Esse erano consapevoli di non poter vincere Mattei sul piano politico. Erano viceversa convinte di poterlo battere sul piano economico, costringendolo a fare investimenti al di là delle sue possibilità “fisiologiche”.

È la politica che hanno perseguito gli USA nei confronti dell’URSS nel campo degli armamenti.

Esatto. È precisamente identico. E tale politica aveva cominciato a dare i suoi frutti. L’Eni stava scoppiando a forza di investimenti “ultra vires”, che talvolta non avevano alcun senso. Penso, per es., a quelli finalizzati soltanto al mantenimento di una certa quota di mercato nel campo della vendita al pubblico dei carburanti e dei lubrificanti. Così l’Eni era stato indotto a compere la follia di riempire il paese di stazioni di servizio e, purtroppo, anche di raffinerie.

Anche l’oleodotto Eni dell’Europa centrale è stato da qualcuno considerato uno sbaglio.

Si rivelò uno sbaglio perché fu realizzato anche l’oleodotto che partiva da Trieste.

Secondo qualcuno anche perché partiva da Genova e perché aveva una portata che non lo poteva rendere economicamente conveniente.

No, il discorso era un altro. La decisione di realizzare quell’oleodotto e di realizzarlo facendolo partire da Genova e facendogli raggiungere la Germania attraverso la Svizzera aveva avuto origine da una circostanza in un certo senso condizionante. L’allora presidente della Finsider, Ernesto Manuelli (se non ricordo male), aveva posto Mattei in contatto con una finanziaria italo-svizzera che aveva una partecipazione in una raffineria costruita sul lago di Ginevra. Si creò quindi una joint venture con altre società la quale, dopo aver deciso di realizzare depositi comuni, trasporti comuni, ecc., ritenne opportuno realizzare anche un oleodotto in comune.

Non si trattò anche di una sfida lanciata alle sette sorelle?

C’entrarono anche le sette sorelle. Dopo il famoso incontro di Montecarlo (al quale io non fui presente), Mattei trasse una chiara conseguenza. “Bisogna che ci prepariamo – mi disse – a crearci enormi polmoni ed a riempirli di ossigeno, ossia di soldi, perché dalla strategia delle sette sorelle di farci cadere sulla maratona degli investimenti non ci libererà più nessuno”.

La strategia delle compagnie petrolifere era precisa, come è stata quella degli americani nella guerra del Golfo. Esse non avrebbero mollato finché non avessero seppellito vivo l’Eni. Quindi, per un lunghissimo periodo, bisognò mantenere con quelle rapporti, per così dire, di tipo cinese, magari stipulando qualche piccolo accordo, al solo scopo di cercare di evitare che usassero anche i gas tossici, ma senza illudersi che si sarebbero astenuti dallo spararti addosso con la mitraglia, col bazuka o con l’artiglieria a schegge multiple. La guerra, in altre parole, era all’ultimo uomo: non c’erano vie di mezzo.

Per reggere dunque l’urto delle grandi compagnie petrolifere Mattei aveva bisogno di forti appoggi politici, oltre che di ingenti mezzi finanziari.

Prendiamo il discorso da un altro punto. Tra me e Mattei c’era una sostanziale diversità di approccio alla gestione dell’Eni. Il mio era un approccio – diciamo – da operatore industriale e basta, il suo era anche un approccio da operatore politico. Non è che io non accettassi la componente politica nella gestione dell’Eni, ma essa per me era soltanto l’ultimo addendo all’intorno di un ragionamento che doveva arrivare alla conclusione partendo dalla valutazione prioritaria degli aspetti imprenditoriali ed aziendali.

Per lui, invece, molte volte, quella componente pesava per il cinquanta per cento nelle scelte e nelle decisioni. Perché? Perché, per le sue responsabilità e per la sua – diciamo – configurazione di uomo con un piede nel mondo imprenditoriale e con l’altro in quello della politica, la componente politica aveva, nella sua valutazione delle iniziative industriali, un diritto di cittadinanza di gran lunga superiore a quello che le riconoscevo io.

E su questo tema lui aveva la pazienza di parlare e di farmi parlare delle giornate intere. Parlavamo ore e ore, anche quando eravamo in volo. Il ragionamento che gli facevo io era questo: “Mattei, guarda, tu potrai fare tutti gli investimenti che vorrai (per esigenze industriali o per esigenze politiche) finché potrai assicurarti autonomamente i finanziamenti necessari. Il giorno che tu uscirai da questo binario sarai finito o perché non troverai più sul mercato i mezzi finanziari che ti occorreranno o perché questi te li daranno i partiti con interventi di governo e/o di leggi (emissioni di obbligazioni, aumenti del fondo di dotazione, ecc., ecc.) ed allora tu ne rimarrai necessariamente condizionato e ridimensionato”.

È per questa ragione che Mattei non chiese mai l’aumento del fondo di dotazione?

Esatto, esatto. “Quindi – gli dicevo – tu devi riuscire ad ottimizzare ed a qualificare gli investimenti, utilizzando i tuoi soli mezzi e privilegiando quelli industrialmente validi rispetto a quelli imposti dai politici. Se tu invece vorrai mantenere alta la percentuale di questi ultimi e vorrai fare degli investimenti – che nel nostro settore hanno già, per loro natura, dei ritorni molto differiti – senza poter disporre di sufficienti ed anzi sovrabbondanti mezzi finanziari, non avrai scampo: tu schiatterai. Il giorno infatti in cui, per i tuoi investimenti (specialmente per quelli più rischiosi o più contestati) ti verrà a nancare l’ultimo miliardo, allora, proprio per quell’ultimo miliardo, tu pagherai tutti i conti fino ad allora accantonati”.

E questa situazione era nota anche alle compagnie petrolifere internazionali?

Sì, i signori americani ed inglesi l’avevano capita tanto bene da indurci a sprecare miliardi e miliardi in investitenti avventati. Nei confronti degli avversari e dei concorrenti noi pativamo quindi due condizioni negative: il peso degli investimenti sbagliati, perché doppioni di quelli altrui, ed il peso delle ragioni politiche (in base alle quali acquistammo, per esempio, prima il Pignone – peraltro rivelatosi un buon affare – e successivamente la Lanerossi).

Ed eravamo arrivati – mantenendoci in bilico su questo incerto confine tra politica ed economia, tra esigenze della politica ed esigenze della competizione industriale e commerciale – al punto che non potevamo più permetterci il benché minimo errore. Ma non era facile rompere la spirale perversa, ed infatti Mattei non ci riuscì. Non poteva sospendere unilateralmente la lotta contro le grandi compagnie straniere, né opporre continui rifiuti al potere politico.

È come quando si comincia a recitare il rosario: puoi fermarti ln qualsiasi momento, ma se vuoi ottenere l’indulgenza devi arrivare alla fine, altrimenti non serve a niente la parte che hai recitata fin lì.

E così vennero lo stabilimento di Gela, quello di Manfredonia, il centro turistico del Gargano ed altri impianti in varie parti d’Italia (devo dire però che investimenti sbagliati di questo tipo, perché politici, ce ne furono anche dopo la morte di Mattei: penso, per es., a quelli effettuati in quella spaventosa valle nella regione del ministro Emilio Colombo, la valle del Basento, che sembrava l’inferno di Dante illustrato dal Doré).

Una volta, cioè, imboccata quella strada non era possibile fermarsi e tornare indietro. E su di essa si potè proseguire senza difficoltà finché l’Eni poté beneficiare di credito facile. Per molti anni, infatti, all’ente dello Stato che aveva successo, i soldi li buttarono dietro e non ci fu mai penuria di fondi. Ma le cose cambiarono quando al vertice della Banca d’Italia arrivò Guido Carli che disse: “Basta, obbligazioni per l’Eni non se ne emettono più”.

Fu allora che Mattei cominciò a rendersi conto che era arrivato il momento di rivedere l’atteggiamento verso gli americani?

Mattei era realista. Quando si rese conto che era necessario cambiare le linee e le modalità degli investimenti e che gli stessi accordi con i sovietici potevano rivelarsi un abbraccio mortale, decise di avviare cauti contatti con la Esso.

Quindi non fu lei ad aprire un capitolo nuovo nei rapporti con le grandi compagnie petrolifere, ma fu lo stesso Mattei?

Certo. Io non feci altro che ritoccare e firmare accordi praticamente già stesi. Chi ne ha attribuito a me la paternità è stato mosso dalla preoccupazione di salvaguardare – come dire – una sorte di verginità ed ha perciò rovesciato su altri la responsabilità di una operazione presentata come operazione sporca, come operazione di resa o di ammaina bandiera.

Il primo passo verso il cambiamento della politica nei confronti delle grandi compagnie internazionali fu la composizione, decisa da Mattei, del contenzioso che si era formato tra l’Anic e la Esso, le quali sin dall’immediato dopoguerra si dividevano al 50% le proprietà della Stanic, ossia le due raffinerie di Livorno e di Bari, dei cui impianti la Stanic aveva affidato alla Esso la progettazione e la costruzione.

Chi gestì allora, in base alle direttiva di Mattei, i rapporti con i soci americani?

Fu l’Ing. Angelo Fornara a portare avanti le trattative con Vincenzo Cazzaniga e con Mr. Stott. Proprio l’Ing. Fornara (che, come chimico industriale, era allora una delle massime autorità in Italia) aveva individuato alcuni errori di progettazione negli impianti cracking della Stanic.

All’incirca nello stesso periodo in cui Fornara contestava agli americani della Esso quella responsabilità, i sovietici (Kossighin) iniziarono a parlare di “nuovi prezzi” per il greggio da loro fornito fino a quel momento a bassissimo prezzo. E tali “nuovi prezzi” raggiungevano abbondantemente le quotazioni internazionali.

Per questa ragione Mattei decise di chiudere bonariamente il procedimento giudiziario per danni che era stato iniziato contro la Esso e di impostare con la multinazionale americana un “accordo globale”.

In effetti, da tempo, Mattei – un po’ per i problemi connessi agli investimenti, un po’ per i rischi insiti negli accordi stipulati con i russi ed un po’ per il timore che si arrivasse ad accordi diretti tra i russi e gli americani (“Cefis, mi disse una volta, è inutile che tu me lo dica. Lo so bene che verrà il momento in cui gli americani e i russi si metteranno d’accordo sopra le nostre teste”) – si era convinto che era arrivato il momento di rivedere i rapporti con le grandi conpagnie petrolifere. Cominciò appunto con la Esso ed il prino passo fu quello di porre fine alla contesa sulla Stanic.

Cosa gli faceva temere un accordo tra i russi e gli americani?

Anzitutto i contatti a tutti i livelli, economici e politici, che già erano in corso tra di loro. Poi anche l’abilità degli stessi responsabili diretti della gestione delle risorse petrolifere dell’URSS. Se, per esempio, Gurov, il presidente di allora dell’ente sovietico del petrolio, fosse stato trovato seduto alla scrivania del presidente della Esso nessuno avrebbe notato differenze tra i due. Il sovietico era sempre all’estero, parlava benissimo tre o quattro lingue, era un grosso lavoratore ed un grosso manager. Quindi con un uomo del genere gli americani non avrebbero avuto nessuna difficoltà ad intendersi prima o poi.

Il superamento del contenzioso Stanic segnò quindi l’inizio di una fase nuova noi rapporti tra Mattei e la Esso: fu firmato un nuovo accordo?

Fu stipulato un accordo in base al quale la Esso ci concedeva un finanziamento, se ben ricordo, di venti milioni di dollari per sette/otto anni a titolo di anticipo su forniture di macchinari del Nuovo Pignone. Era quindi un accordo che sconfinava dal ristretto giardinetto di pertinenza della Stanic. Poi arrivò il contratto per il gas libico che la Esso estraeva dai suoi giacimenti in Libia assieme al petrolio che bruciava in torce perché non sapeva cosa farne.

Mattei non fece comunque in tempo a completare la manovra di avvicinamento alle compagnie americane e quindi a vedere i frutti di un cambiamento di politica nei loro confronti. Quando perciò venne a mancare i suoi successori si ritrovarono – come è stato detto – qualche pietrone intorno al collo.

La frase non è sicuramente mia. Comunque Mattei, per le ragioni spiegate sopra, aveva esposto finanziariamente le aziende del Gruppo un po’ troppo al di là delle loro possibilità fisiologiche. L’Eni non riceveva incrementi del fondo di dotazione, non poteva emettere obbligazioni, otteneva solo crediti a breve. Questa, si sa, è la strada che porta un industriale diritto al disastro.

Ma intendiamoci bene: Mattei da quella situazione ne sarebbe certamente uscito. Non so in che modo, ma nessuno può pretendere di insegnare ad un gatto selvatico come arrampicarsi sugli alberi.

Le compagnie petrolifere internazionali stavano dunque riuscendo nel loro intento di metterlo in ginocchio?

La loro strategia era quella giusta, le loro tattiche erano quelle adatte a raggiungere lo scopo che si erano prefisso. Dovevano soltanto aspettare i risultati. Oltre che dalla scarsità dei mezzi finanziari (e dalla differita redditività di molti degli investimenti fatti), Mattei era stato messo in difficoltà dal comportamento dei politici, i quali, avvezzi a trattare con superficialità i problemi industriali e commerciali, non solo lo avevano costretto ad investimenti sbagliati, ma non lo avevano sostenuto sufficientemente nelle sue iniziative all’estero.

Essi pretendevano che l’ente petrolifero dello Stato provvedesse alla sicurezza strategica dell’approvvigionamento delle fonti energetiche, ma non si rendevano conto che ormai le nostre riserve metanifere si andavano esaurendo e le nostre capacità di ricerca all’estero erano estremamente difficili senza il costante e convinto appoggio del governo italiano. Quando noi andavamo all’estero, gli ambasciatori italiani al Cairo o in Argentina o altrove, prima di ricevere un funzionario dell’Eni, chiamavano Roma per sentire se facevano bene o se facevano male a riceverlo; erano quasi tutti al servizio dell’industria privata per la qaale sembravano pronti a prostituirsi ed a fare non so che cosa. Quindi, la ricerca di fonti energetiche all’estero senza il supporto dell’autorità ufficiale dello stato italiano era una impresa fallimentare in partenza. Tutte le altre compagnie (da quelle francesi a quelle inglesi ed a quelle americane) beneficiavano nelle loro attività all’estero dell’efficace supporto delle varie organizzazioni di intelligence dei loro paesi, mentre noi non avevamo nessuno aiuto all’estero e neppure in Italia. Per fare un esempio, dovemmo sudare le proverbiali sette camicie, noi azienda dello Stato, prima di riuscire a vendere i nostri prodotti alle forze armate, fino ad allora rifornite dalla Esso e dalla Shell.

D’altra parte il mondo politico trovava naturale richiedere all’Eni di operare non solo come ente nazionale dell’energia, ma anche come “ente di sviluppo” nel meridione (in Sardegna perfino per combattere il banditismo: vedi l’impianto nella Valle del Tirso). Secondo questa logica, gli investimenti – non importava come e a quale costo – si dovevano fare in tutte le zone e in tutti i settori, magari in hotels ed in impianti altrettanto costosi quanto inutili, al fine di industrializzare il paese e di combattere la disoccupazione. Allora, in una situazione di questo genere, che cosa si poteva fare? Se uno aveva la forza – diciamo – morale e politica ed i mezzi finanziari, e quindi non aveva nulla da chiedere al mondo politico, poteva andare avanti per la sua strada. Questo, però, poté essere fatto – come ho detto – fino ad un certo punto e neppure in tutti i casi. Mattei, per le ragioni spiegate, era proprio arrivato vicino al punto di “massima sopportazione”.

Tale situazione non ha però caratterizzato soltanto la presidenza Mattei.

Per quanto mi riguarda le cito un solo esempio. L’Eni, per avere metano da “stockare” nella Valle Padana in vista della sua distribuzione attraverso le reti già esistenti e quelle da costruire, dovette comprarlo dalla Russia. E per comprarlo dalla Russia si doveva finanziare il metanodotto che lo trasportava da quelle zone. Ed è quello che noi facemmo nonostante l’opposizione del presidente del Consiglio, dei ministri dell’Industria e del Commercio, dell’intero governo, della Nato, di quasi tutti gli organi di informazione. E questo fu fatto perché ci fu possibile beneficiare di uno di quei momenti eccezionali, di cui uno può godere per aver fatto un voto alla Madonna di Pompei, ma che non si ripetono una seconda volta.

Questa è la contraddizione che ha sempre accompagnato la vita dell’Eni dai tempi di Mattei fino ad oggi. I politici esigevano, ma non ti aiutavano. Non solo, ma ti facevano anche il canto delle sirene: “Vedrai”, dissero ad un certo punto a Mattei, “vedrai che l’Eni diventerà l’Ene, l’ente nazionale dell’energia, e gestirà anche l’energia elettrica e quella atomica”. E questa era una musica che suonava dolce per qualsiasi orecchio.

Ed in effetti tale ente era stato previsto nel programma del governo Fanfani formato nel luglio del 1958, ma non passò. Era stato Mattei a progettarlo ed a propugnarlo?

No, erano stati i politici a metterglielo in mente. Essi però, nello stesso momento, lo prospettavano anche all’Iri e poi rassicuravano i privati negando di volerlo realizzare.

Ma Mattei può essere considerato un uomo di potere, come hanno voluto presentarlo, sin nei titoli, gli autori dei primi libri scritti su di lui e sull’Eni?

No! Che la molla che lo spingeva ad operare fosse il gusto del potere è da escludersi. Indubbiamente l’esercizio del potere gli dava un certo piacere, una certa soddisfazione. Ma come dà piacere fumare una sigaretta. Non è che per quello uno va a rubare o, come viene talvolta indotto a fare il drogato, va a fare una rapina.

Ecco, no, Mattei non era disponibile ad alcun compromesso al solo scopo di poter raggiungere, accrescere e conservare potere.

Ho sentito parlare della teoria del compasso, vale a dire del cerchio oltre il quale non si dovrebbe mai mettere il piede. Ecco, Mattei – da buon montanaro, da buon matelicese (anche se era nato ad Acqualagna) – cercò sempre di attenersi alla regola di non fare mai il passo più lungo della gamba. Se non seguì sempre questa norma di condotta fu perché fu costretto a conciliare le esigenze di sviluppo dell’Eni con le le altre ricordate necessità di sottostare a talune richieste del momdo politico e di fronteggiare gli attacchi degli avversari e dei concorrenti italiani e stranieri. Appena però possibile, si sforzò di rientrare nell’alveo per lui naturale delle cose logiche.

E del populismo di Mattei cosa pensa?

C’era certamente un fondo di populismo in Mattei, che da ragazzo, se non aveva sofferto la fame, l’aveva vista molto da vicino.

Il mondo da cui proveniva era infatti un mondo di diseredati che stentavano ad arrivare a fine mese, che non potevano far studiare i bambini, che non riuscivano a comprarsi un cappotto e magari andavano in giro con degli strani pastrani rivoltati. L’idea quindi di aiutare lo sviluppo del paese e di favorire la diffusione del benessere era un’idea radicata in lui, anche se non lo portava ad atteggiamenti da esagitato come quelli che gli ha fatto assumere il film di Rosi.

Non so se mi sono espresso bene e se sono stato esauriente. Ho cercato di farmi capire e di formulare giudizi i più asettici possibili. Non posso però garantire che in quello che ho detto non ci sia qualcosa di sbagliato. L’uomo io lo ricordo così, ecco.

Lei è stato a lungo molto vicino a Mattei, ha avuto un ruolo importante ed ha conosciuto bene i problemi dell’Eni. Quindi i suoi giudizi e le sue considerazioni sulla persona e sull’opera di Mattei meritano la massima attenzione. Ma mi tolga una curiosità: perché agli inizi del 1962 lei lasciò l’Eni inaspettatamente (come, del resto, avrebbe fatto nel 1971)?

Io lasciai l’Eni nel 1962 perché mi ero reso conto che il momento di grazia dell’ente era finito e che con l’avvento del centro sinistra stava per venire a mancare la possibilità per l’Eni di portare avanti quello che riteneva un giusto programma di sviluppo, anche in presenza di un diverso parere ufficiale del governo o della contrarietà delle forze politiche. Un’epoca, una stagione era finita. Allora, o uno accettava lo sviluppo dell’ente secondo la logica dei politici e della lottizzazione (intendiamoci: non vi era niente di strano in questo; nelle democrazie questo è normale) o egli cambiava mestiere. E siccome all’Eni io mi sono sempre considerato un ufficiale di complemento, non un ufficiale in servizio permanente effettivo, a quel punto mi sembrò che non c’era più ragione che io restassi.

Mi trovai nella stessa situazione anche molti anni dopo, da presidente, quando, molto prima della scadenza del mio mandato, avvertii le autorità competenti che non avrei accettato il rinnovo della carica. Mi preoccupai allora di preparare una certa successione quando nessuno immaginava che il posto avrebbe potuto essere occupato da Raffaele Girotti. Ma le autorità conoscevano bene i miei problemi di quel periodo in cui avevo vissuto due momenti particolarmente penosi come uomo e come manager. Il primo era stato la morte di mio figlio, avvenuta dopo una dolorosa malattia (volevo allora restare un po’ vicino alla famiglia) e l’altro era stato la strage dei nostri dipendenti in Biafra.

Proprio in occasione di quest’ultimo tristissimo evento io mi resi conto che per me era diventato impossibile, come manager pubblico, sopportare la lentezza, l’indifferenza e la logica della classe politica. Benché fossi persuaso che si trattava di conseguenze forse inevitabili del sistema democratico e benché io accettassi incondizionatamente tale sistema e fossi contento di vivere in un paese democratico, non riuscivo tuttavia a tollerarne le pastoie che vincolavano un manager responsabile di un ente pubblico.

Insomma, in quella circostanza, per riuscire a salvare i lavoratori ed i tecnici Agip sopravvissuti alla strage, io – nell’assoluta latitanza delle autorità ufficiali italiane – fui costretto a chiedere l’aiuto del colonnello Da Silva Sebastiao, governatore di Sao Tomè, possedimento del Portogallo, anzi territorio motropolitano portoghese. Non ero infatti riuscito a far agire la nostra diplomazia (allora era ministro degli Esteri il povero Nenni), perché il Portogallo era un paese a regime dittatoriale e lo stato italiano, comprensione umana a parte, non riteneva di poter compiere ufficialmente alcun passo; in pratica “non si voleva compromettere”.

Fece quindi tutto, di sua iniziativa e sotto la sua responsalità, il governatore portoghese, che alla fine non chiese nulla. Io, come ringraziamento, riuscii appena a fargli dare una onorificenza, che però dovemmo comprare noi in un negozio perché lo Stato non aveva sentito il dovere di aggiungere alla pergamena il costo (poche migliaia di lire) della croce.

Ho voluto ricordare questo episodio per far capire come arriva il momento in cui uno si può stancare e può dire: “Basta! Non se ne può più”. Per me andò proprio così.

Adesso i tempi sono cambiati, ma il contesto, lo scenario sono rimasti gli stessi, anzi sono cambiati in peggio. Oggi il potere politico è dittatura per chi sta a capo dell’Eni.

Tornando ai tempi più remoti, vorrei chiederle come si arrivò, dopo la morte di Mattei, alla designazione di Boldrini a presidente e di Cefis a vicepresidente dell’Eni. Chi propose le due nomine?

C’era una divergenza tra Fanfani e Moro. Moro voleva portare a capo dell’Eni l’avv. Pietro Sette, Fanfani non sapeva chi voleva. Per me non aveva una grande simpatia. Forse non mi perdonava il fatto di avere collaborato a creare la Base che gli aveva dato tanti fastidi.

Secondo la vedova di Marcello Boldrini lei sarebbe stato voluto proprio dal professore che la stimava tanto.

Io amavo veramente Boldrini, ma non so se fu lui a proporre la mia nomina a vicepresidente. Io so che mi chiamarono e mi dissero: “Tu sarai il numero uno, farai tutto, però presidente sarà nominato Boldrini. Ti dispiace?”. Io accettai e ci furono solo queste poche parole. Come è noto, io poi operai da subito come presidente effettivo.

Negli atti ufficiali dell’Eni si legge che lei ottenne gli stessi poteri del presidente da esercitare “in coadiuvazione”. Se lo ricorda?

Non me lo ricordo. Boldrini era talmente educato e per bene che capi ed accettò subito la situazione. Io gli riferivo regolarmente come andavano le cose e lui mi ringraziava, ma non pretese mai di essere informato preventivamente. No, Boldrini era una persona straordinaria. Era molto affezionato all’Eni: l’Eni era la sua famiglia. Molti dei dirigenti (specialmente della Snam) erano suoi conoscenti ed alcuni erano stati suoi allievi. Suo allievo prediletto era stato Luigi Faleschini da lui stesso presentato a Mattei.

A Boldrini viene attribuito un certo ruolo nella definizione e nell’attuazione della politica scientifico-culturale dell’Eni, per es. nella ideazione della Scuola Superiore sugli Idrocarburi e della Enciclopedia del Petrolio.

Quelle due iniziative, collegate all’obbligo statutario dell’Eni di investire una quota dei suoi profitti in iniziative di promozione di studi e ricerche nel settore degli idrocarburi, furono il frutto di scambi di idee tra Mattei, Boldrini e Faleschini. Ma quelle ed altre idee divennero realtà solo quando Mattei lo fece proprio, per cui se ne può attribuire a lui la paternità.

Sull’opportunità della realizzazione dell’Enciclopedia del Petrolio non mancò qualche perplessità iniziale e difatti ne fu per qualche tempo differito l’avvio.

Mattei fece anche raccogliere e pubblicare gli scritti contrari all’Eni. Come giudica questa iniziativa?

L’iniziativa ebbe un significato di sfida od un sapore di autocompiacimento. Con essa Mattei sembrava voler dire: Ecco, nonostante questa montagna di scritti contro di me, io sono qua che vado avanti per la mia strada. I vostri attacchi sono armi talmente spuntate che io mi permetto il lusso di renderli pubblici e di regalarli in giro, perché la gente constati quante stupidaggini avete scritto su di me e sull’Eni.

Mattei fu un personaggio fuori del comune: secondo lei, un uomo come Mattei si sarebbe potuto affermare oggi nel mondo dell’imprenditoria pubblica?

Ritengo proprio di no. Mattei ebbe la fortuna di trovarsi ad operare in un momento nel quale c’era – come dire – una straordinaria combinazione di stelle favorevoli. Si trovò cioé nel posto giusto al momento giusto. Bastava uno scarto di cinque anni e le cose sarebbero andate molto diversamente, perché si sarebbe trovato a fare i conti con un quadro di riferimento sensibilmente diverso.

Il successo, favorito certo dalle circostanze, ma anche dalle sue eccezionali capacità, spinse mai Mattei ad assumere atteggiamenti arroganti?

Assolutamente. Mattei non assunse mai atteggiamenti da arrogante o da strafottente. Lui si presentava con grande rispetto agli appuntamenti con gli uomini di governo. Egli trattava con riguardo anche l’ultimo ed il più stupido di loro. Trattava i ministri come se stessero sopra un piedistallo; non alzava mai la voce con loro. Anche se dava loro del “tu”, diceva: “Signor ministro“, “Caro ministro”, “Sì, ministro”,“No, ministro”. Non faceva o diceva mai nulla che potesse essere od apparire stonato, fuori luogo o fuori misura (per es. “Io sono… tu sei”).

Una volta, dopo un incontro ministeriale che non aveva avuto l’esito da lui desiderato, mi disse: “Non ti preoccupare: bisogna avere pazienza. Quello non resterà a lungo su quella poltrona e quando lui se ne sarà andato noi saremo ancora al nostro posto”. Però di questa norma di comportamento da lui confidatami, all’esterno, non appariva niente: zero virgola zero all’infinito.

Secondo alcuni, però, Mattei perdeva qualche volta la pazienza anche con importanti uomini politici. Una volta, per es., l’avrebbe persa anche con il presidente Gronchi.

No, a me non risulta. Eppure io sono stato molte volte presente ai suoi colloqui con personalità politiche. Quando mi trovavo da lui ed egli doveva andare da questo e da quell’altro, mi diceva: “Ti porto con me. Sei il mio braccio destro. Ti dispiace anzi se inizi tu?”

No, no, Mattei se lo coccolava il presidente Gronchi, se lo rigirava e pettinava. “Cefis – mi disse una volta – sta’ attento perché se io mi distraggo appena appena, tu, al posto mio, trovi suo nipote”. Un giorno, andati al Quirinale, stavamo sostando un momento nel salottino con le vetrate quando vedemmo uscire dallo studio del presidente suo nipote. Mattei, il cui mandato era scaduto, mi disse con un tono tra il serio ed il faceto: “Sta a vedere che quello ha già deciso di appoggiare la nomina di suo nipote al posto mio”.

Naturalmente era una battuta e Mattei parlava così per il piacere di dire qualche facezia: con me si lasciava andare e diceva anche delle cose così, tanto per dirle, tanto per fare una battuta di spirito. Una volta, per es., gli dissi: “Mattei, chi te lo fa fare di far arrabbiare Fanfani (che talvolta, o per farsi prezioso o per affermare la sua supremazia, gli faceva degli appunti, specie sulla situazione finanziaria del Gruppo, e Mattei reagiva di brutto)?” Mi rispose: “Cefis, tu non capisci niente. Non capisci che più indebitiamo l’Eni e più diventa difficile che qualcuno voglia venire a prendere il nostro posto. Se non facciamo così si formerà una fila interminabile di aspiranti”. Naturalmente diceva così tanto per dire. Non è che parlasse seriamente.

Incontrò difficoltà per il rinnovo del mandato presidenziale nel 1956 e nel 1959?

Beh! Glielo fecero sospirare a lungo. Devo però dire che lui non fece mai alcuna pressione per riottenerlo; ostentava buon viso a cattivo gioco.

È rimasto l’unico presidente confermato per due volte e che probabilmente sarebbe stato confermato anche per la terza volta. Ma passiamo ad un altro argomento: quali furono i rapporti dell’Eni con gli altri enti di gestione durante la presidenza Mattei?

Secondo me, il sistema delle partecipazioni statali ha avuto nell’Eni una specie di corpo estraneo. Forse per questo, o anche per questo, tra l’Eni e gli altri enti di gestione c’è sempre stata una specie di guerra sotterranea e, qualche volta, anche di guerra alla luce del sole. Benché Mattei, per esempio – e questo lo ricordo benissimo – si fosse fatto in quattro per far eleggere presidente dell’Iri il prof. Giuseppe Petrilli, tra lui e Petrilli non mancarono tuttavia dei contrasti. Ci fu una guerra stupida su chi dovesse costruire la prima centrale nucleare (che poi l’Eni realizzò a Latina) per ipotecare la supremazia in quel settore. Cose folli, proprio, viste col senno di poi!

Negli altri enti c’era una specie di gelosia verso l’Eni. Essi erano piuttosto succubi della classe politica, mentre l’Eni dimostrava spesso, verso di essa, una spavalda autonomia. E questa diversa condizione dava origine ad un sacco di inutili attriti con i quali bisognava fare i conti.

Insomma, dovette morire Mattei e si dovette arrivare all’intesa per la scalata alla Montedison perché si potesse riuscire a siglare un accordo con l’Iri in base al quale, fatta pace nel settore nucleare, all’Iri fu trasferito il settore alimentare della Montedison e l’Eni ottenne i permessi necessari per poter installare un buon numero di stazioni di servizio dell’Agip sulle autostrade dell’Iri. Si noti che fino a quel momento le altre compagnie petrolifere possedevano un gran numero di stazioni di servizio sulle autostrade e noi pochissime. Dopo quell’accordo, e non prima di aver fatto all’Iri altre concessioni, arrivammo ad averne il 50%. Questi erano gli assurdi rapporti tra enti appartenenti allo stesso sistema delle partecipazioni statali.

L’operazione Montedison da lei citata ci porta al periodo della sua presidenza dell’Eni dalla quale mi auguro si possa parlare più diffusamente in un’altra occasione…

D’accordo! Infatti tra una diecina di minuti la devo lasciare.

Dal momento, comunque, che si è accennato alla Montedison le chiederei di spiegare brevemente come e perché si arrivò alla scalata di questa società, operazione sulla quale si conoscono quasi soltanto valutazioni ostili. Ne furono criticati gli intenti, le modalità ed i risultati (penso, in particolare, agli attacchi di Eugenio Scalfari ed al libro da lui scritto in collaborazione con Giuseppe Turani).

Io dico questo. La storia la scrive chi vince e quindi potrebbe essere inutile andare a cercare le ragioni di chi perde. D’altra parte mancano forse le informazioni ed i dati sufficienti a dare un quadro completo e preciso di quella vicenda. Lei, comunque, potrà trovare negli archivi dell’Eni molti altri elementi e molti riscontri a quanto ora le dirò. La “scalata” alla Montedison aveva radici antiche e risaliva al discorso del trasferimento all’Eni della partecipazione dell’Iri nella Montecatini, che era vecchissimo. Questo risaliva ai tempi di Mattei e di Aldo Fascetti, il presidente dell’Iri di allora, predecessore di Giuseppe Petrilli. Poiché, però, ai tempi di Fascetti il factotum, all’Iri, era il direttore generale Sernesi, fu con Sernesi che aveva avuto inizio quel discorso.

Il progetto era molto semplice. L’Eni voleva entrare nella chimica e riteneva opportuna una intesa con la Montecatini. Non era infatti consigliabile per l’Eni agire in modo da autentare i problemi di una azienda allora in grosse difficoltà in conseguenza del passaggio da una situazione di monopolio ad una di dura concorrenza con la Edison che, oltre tutto, capeggiava allora lo schieramento degli avversari dell’Eni. Stando così le cose, sembrò utile all’Eni entrare in possesso della partecipazione che l’Iri aveva nella Montecatini. Del resto, che cosa se ne faceva l’Iri di quella partecipazione? Perché dunque non la cedeva all’Eni?

Il discorso, come ho detto, era stato iniziato già da Mattei, ma non si era arrivati allora ad alcun settlement in quanto Sernesi – per il quale l’Iri rappresentava tutto: la società, la patria, la religione, la famiglia, tutto – aveva tirato fuori la scusa che la partecipazione nella Montecatini era l’unica partecipazione diretta dell’Iri che desse un costante dividendo (allora la Montecatini andava bene).

Di fronte a simili argomenti il discorso si era arenato. Fu ripreso poi, dopo la morte di Sernesi, con Giuseppe Petrilli che era però difficile agganciare al problema. Petrilli è una persona molto perbene, molto corretta, molto colta, anche nel settore economico, ma, per i dettagli dei vari problemi, era solito appoggiarsi sui suoi più vicini collaboratori. Gli interlocutori dell’Eni furono quindi il dr. Medugno (direttore generale), l’avv. Calabria ed il dr. Viezzoli (vice direttore generale). Ma non si riuscì allora a venirne a capo.

Alla fine il risultato voluto fu raggiunto seguendo una straada completamente diversa.

Morto Mattei, il primo problema che si dovette affrontare fu quello della riduzione del numero dei nemici. L’Eni non poteva permettersi il lusso di continuare ad operare secondo il principio “molti nemici molto onore”. Quindi si cercò di ridurre quanto più possibile i punti di crisi dei settori nei quali operavamo ed i punti di attrito che la nostra attività aveva creato nei rapporti con i concorrenti italiani e stranieri.

E cominciai ad affrontare anche il problema dei necessari accordi e delle utili alleanze. Prima però di andare a cercare alleanze nel campo privato mi parve indispensabile giungere a creare una condizione di buon vicinato con gli altri enti pubblici. E così, con il patrocinio di Giorgio Bo (che godeva della stima generale), l’Eni e l’Iri cominciarono a passare in rassegna i problemi che li dividevano.

Si partì dal settore nucleare, che era un settore incandescente, e poi, adagio adagio, si passò agli altri settori. A questo punto si aprì la possibilità dell’esame della questione (che io stesso avevo trattata con Sernesi ai tempi di Mattei) della partecipazione dell’Iri nella Montecatini o, meglio – essendosi questa nel frattempo fusa con la Edison – nella nuova società che ne era risultata, cioè la Montedison.

Così fu fatto. Però questa volta non fu richiesto all’Iri di vendere all’Eni la sua partecipazione. Fu avanzata un’altra proposta. L’Iri poteva trovare delle sinergie nolto interessanti in alcune delle tante attività della Montedison, che minacciava gli interessi fondamentali dell’Eni. La Montedison infatti, oltre che nella chimica, aveva cominciato ad operare anche nel settore petrolifero: faceva ricerche petrolifere, era nostra antagonista nell’accaparramento di permessi di ricerca fuori della Pianura Padana, ci combatteva all’estero (tra l’altro, ci aveva fatto perdere la gara per una concessione di ricerche in Libia).

A questo si aggiunga che la chimica italiana offriva in queigli anni uno spettacolo quasi burlesco. L’Edison aveva iniziato la sua attività nella chimica prendendosi tecnici dalla Montecatini; l’Anic, per il suo primo grosso stabilimento chimico di Ravenna, aveva portato via dalla Edison il suo numero uno, l’ing. Fornara; successivamente era entrato nel settore Mino Rovelli che, per ingrandirsi, stava strappando dipendenti all’Anic, alla Edison ed alla Montecatini.

Erano pochissimi i cervelli chimici in Italia ed i grossi produttori se li rubavano l’un l’altro: sembrava la corsa in cerchio dei sette nani.

La nuova proposta fatta allora all’Iri fu pressappoco questa: Voi avete una partecipazione nella Montedison e siete nel sindacato di controllo di quella società, na da soli contate poco o nulla. Le azioni di quella società sono oggi quotate ad un livello nolto basso; se l’Eni acquista in borsa azioni Montedison e voi arrotondate la vostra partecipazione, l’Eni potrà poi entrare nel sindacato ed insieme a voi potrà raggiungere, senza eccessivo sforzo finanziario, la maggioranza nel sindacato di controllo. Raggiunto questo obiettivo, l’Eni e l’Iri faranno un patto di collaborazione con gli altri azionisti. Come si vede (lo dico tra parentesi), la storia dei patti di collaborazione è storia antica e Gardini non ha innovato niente, se mai ha dimostrato anche lui, ancora una volta, che certe soluzioni alla fine non reggono.

La risposta dell’Iri fu affermativa. Petrilli ed io ne parlammo quindi ai ministri competenti, ossia al ministro delle Partecipazioni statali Giorgio Bo, al ministro del Tesoro Emilio Colombo ed al governatore della Banca D’Italia Guido Carli. Così ebbe inizio la scalata alla Montedison.

E questa fu portata avanti senza il minino sospetto da parte del vertice della Montedison?

Devo ricordare un altro precedente. Prima ancora di avviare il tentativo di settlement con l’Iri (già subito dopo la morte di Mattei), io avevo cominciato a stabilire contatti con il capofila dello schieramento anti-Eni, l’Ing. Valerio. Lo avevo fatto indirettamente, vale a dire tramite i buoni uffici del sen. Nencioni che, a suo tempo – per incarico di Mattei – avevo, per così dire, conquistato alla nostra causa. Il senatore Nencioni, editore de “Il Borghese”, in appoggio alle tesi anti-Eni di don Sturzo, aveva pubblicato un numero unico inteso ad attaccare e denigrare l’attività dell’Eni, per cui Mattei mi aveva detto: “Va’ a trovarlo e compralo, hai carta bianca”.

Purtroppo l’Eni era costretto a ricorrere a questi mezzi per neutralizzare gli attacchi che venivano sferrati da giornalisti prezzolati dagli oppositori.

Nel caso specifico ero venuto a scoprire che il libello era stato finanziato da Moratti. Partendo da Moratti ero arrivato a Nencioni, entrambi lombardi.

Guadagnato, diciamo così, un nuovo supporter all’Eni, cominciai dunque, proprio tramite Nencioni, ad impostare una trattativa con Giorgio Valerio con il quale fu stesa una bozza di accordo, che rimase sogreta.

Il testo di tale accordo, firmato da Valerio e da me in un unico esemplare, fu controfirmato da Nencioni e da lui custodito. Io ne venni in possesso soltanto due anni dopo la morte del senatore, perché saltò fuori in occasione del riordino delle sue carte e mi fu allora consegnato.

Quali erano i termini di quell’accordo?

Registrava sostanzialmente le intese che erano state raggiunte verbalmente tra Valerio e me in alcuni settori comuni, come per es. le ricerche petrolifere in Italia. In quello stesso periodo la Montecatini si dibatteva in grosse difficoltà. Dissi quindi a Valerio: “Scusi, ingegnere, la Montecatini sta andando di peste. Più va di peste, più ci rovina il mercato. Noi abbiamo degli investimenti da ammortizzare, se ci mettiamo a fare la guerra, salta lei e noi perdiamo una barca di quattrini”. “Hai ragione, amico – consentì Valerio – il tuo ragionamento non fa una grinza”. “Allora – incalzai io – compriamo insieme la Montecatini in borsa. Per acquistare il controllo della Montecatini bastano soltanto poche decine di miliardi. Se consideriamo che uno solo dei grossi impianti, che andiamo a costruire in maniera sprogrammata per fare identici prodotti, costa ottanta/cento miliardi o anche più, si tratta per noi di investire in azioni Montecatini una somma molto più modesta. Con quindici miliardi ciascuno possiamo comprare in borsa azioni della Montecatini, che sono in calo, e prendere il controllo della società. Ci sediamo poi ad un tavolo e, senza voler strafare o prevalere l’uno sull’altro, stabiliamo i rispettivi ruoli”. Su queste basi fu steso uno schema di accordo, il cui testo con le firme di Valerio e di Nencioni fu ritrovato – come ho detto – tra le carte del defunto senatore missino.

Le cose stavano a questo punto quando una sera, all’ora di cena, Valerio mi chiamò a casa e mi disse: “Cefis, avevamo concordato di vederci nei prossimi giorni. Non è più il caso: ho avuto dal governo il benestare alla fusione tra la Montecatini e la Edison”.

Questo avvenne mentre io stavo portando avanti il discorso con l’Iri. Quando perciò Valerio concluse: “È così”, io mi permisi di commentare: “Questo lo dice lei”.

Dopo la fusione tra le due società e la creazione della Montedison noi e l’Iri raggiungemmo l’accordo e, ottenute le autorizzazioni necessarie, cominciammo a comprare azioni della Montedison fino a raggiungere la maggioranza nel sindacato di controllo.

Fu questo l’unico acquisto di azioni di società realizzato dall’Eni durante la mia presidenza. Non ricordo adesso quante furono le azioni acquistate, ma il loro numero è riportato nelle relazioni che tutti i mesi mandavo alla Banca d’Italia, al ministro delle Partecipazioni statali od al ministro del Tesoro. Aggiungo che l’acquisto dello azioni Montedison fu effettuato in borsa ed a prezzi decrescenti.

Quindi il consenso del governo e del governatore della banca d’Italia precedette l’avvio dell’operazione?

Ci mancherebbe altro! L’operazione d’acquisto avvenne attraverso le banche e le banche non potevano sfuggire al controllo della Banca d’Italia.

L’autorizzazione ricevuta (il testo lo troverà agli atti) prevedeva l’obbligo per l’Eni di comunicare mensilmente al governo e alla Banca d’Italia informazioni sulla quantità dei titoli Montedison acquistati, sul prezzo pagato e sulla percentuale del capitale raggiunto. E quando si arrivò al totale degli acquisti preventivati fu reso pubblico, con un comunicato, ciò che era stato fatto dall’Eni e dall’Iri.

Questa fu la “scalata alla Montedison”.

D’altra parte, quale ente pubblico avrebbe potuto essere così folle da pensare di poter comperare tante azioni della Montedison senza prima avere ottenuto regolare benestare da parte delle autorità di governo? Se avesse acquistato le azioni prima di “avere le carte in regola” e poi il benestare non fosse venuto, che avrebbe fatto? Se le sarebbe portate a casa e poi sarebbe andato a rivendersele? No, non si possono né fare né immaginare cose del genere.

Che mi sia costato fatica con alcuni ministri, questo sì. Ma non con tutti però. Con Emilio Colombo neanche a parlarne; fu facilissimo; con Giorgio Bo, lo stesso. Non diversamente andarono le cose fuori dal governo. Il governatore Guido Carli per poco non mi abbracciava quando andai da lui con Enrico Cuccia e con Petrilli. Aldo Moro lo sapeva. Lo sapevano tutti. Tutti, tranne Valerio, poveretto. Non avendo voluto tenere conto dell’insegnamento evangelico “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, rimase vittima dello scherzo da lui fatto qualche anno prima al conte Faina, quando aveva organizzata ed attuato la fusione Montecatini-Edison, tenendo all’oscuro di tutto il presidente della Montecatini.

L’operazione suscitò violenti attacchi da parte degli ambienti confindustriali e della stampa…

Per forza, per forza. La Montedison era un pilastro della Confindustria. E le spiego il perché. Dopo la guerra la Montecatini, anziché concentrare gli impianti distrutti o semidistrutti in grossi complessi produttivi ubicati secondo una pura logica economico-industriale, li aveva ricostruiti negli stessi luoghi in cui erano stati costruiti la prima volta, con il criterio di una ciminiera vicino ad ogni campanile. Tale criterio rispondeva soltanto ad esigenze di potere locale e di potere in Confindustria. Gli impianti così distribuiti davano infatti, tra l’altro, la possibilità di ottenere la maggioranza, al momento delle elezioni, negli organi osecutivi provinciali della Confindustria e poi di ottenere la maggioranza dei delegati in seno al consiglio nazionale della Confindustria.

Per questa ragione, o anche per questa ragione, la Montecatini non fu mai sollecitata a raggruppare i propri impianti e quando realizzò nuovi grossissimi impianti non smantellò quelli vecchi. Così, per esempio, si ritrovò ad avere due impianti in provincia di Venezia, a Mantova ed a Ferrara e fabbrichette qua e là per l’Italia, quasi in ogni provincia: li manteneva in vita perché – come ho detto – erano altrettanti voti nelle elezioni degli organi provinciali e poi anche centrali della Confindustria.

Quando poi alla Montecatini si aggiunse la Edison queste opportunità si moltiplicarono ed il potere della Montedison nella Confindustria si rafforzò ulteriormente.

La campagna di stampa contro di lei rispecchiava forse il timore che il settore pubblico dell’ecomomia potesse rafforzarsi troppo a sfavore del settore privato?

No, ci sono due discorsi da fare. Il più importante glielo farò alla fine. L’altro è che ciascuno di noi è giudicato non per quello che è, ma per quello che appare. Evidentemente io, ad un certo momento, avevo dato l’impressione di volermi servire della presidenza dell’Eni come di un trampolino di lancio per fare chissà che cosa. La realtà è invece un’altra. In Confindustria, la Montedison aveva una grossa presenza ed un grande peso. A sua volta però la Montedison era governata da un sindacato di controllo in cui, tra i vari partecipanti (Iri, Pirelli, Bastogi, Fiat), il maggior peso specifico era quello dell’avv. Agnelli, prima come peso personale e poi come Fiat.

Dietro agli attacchi c’era dunque la Fiat?

Anche. La Fiat non ha mai avuto bisogno di apparire in prima persona. Quando l’Eni trovò il metano a Ravenna, Mattei disse: “Noi regaliamo il metano vendendolo a due lire il metro cubo e poi ci accusano anche di sfruttare i consumatori e di lucrare con la rendita da monopolio. Allora perché, oltre che come combustibile (per usi industriali e per usi civili) non lo adoperiamo anche come materia prima? Facciano un impianto chimico. Non abbiamo bisogno di gassificare il carbone per avere il gas perché questo lo abbiamo nel nostro sottosuolo”. “Cosa possiamo fare con questo metano?”. “Possiamo inconinciare ad utilizzarlo per la produzione della gomma sintetica e dei fertilizzanti per l’agricoltura”. “Allora bisognerà trovare l’uomo giusto che se ne faccia carico”. “D’accordo, d’accordo!”.

Ci si guardò attorno e fu individuato l’ing. Angelo Fornara che lavorava alla Sicedison: fu assunto come capo dell’Anic. Fornara predispose i progetti, fece i calcoli di redditività e di ritorno del capitale investito e noi ci persuademmo che la cosa stava in piedi.

Nel settore dei fertilizzanti chimici bisognava però fare i conti con la Montecatini, che ne aveva il monopolio della produzione e che, attraverso la Federconsorzi e la propria rete di distributori, serviva l’intera agricoltura italiana. Quanto alla gomma sintetica, prima di avviarne la produzione, bisognava garantirsi che si potesse contare sul principale cliente italiano, la Pirelli. Altrimenti chi andava a comprare la gomma sintetica quando la gomma naturale era ancora competitiva sul mercato come prezzo e come qualità?

Ed infatti Mattei mi disse: “Perché non vai da Pirelli e da Faina a proporre una joint venture a tre tra l’Anic che fornisce la materia prima, il metano, la Pirelli che produce la gomma sintetica e la Montecatini che pensa ai fertilizzanti? Con un accordo del genere saremmo a posto tutti e tre e potremmo, tutti e tre, partecipare agli utili derivanti dal passaggio, senza intermediari, dalla materia prima al prodotto finito”.

Sia con la Montecatini, sia con la Pirelli si era già in fase di esame della bozza dei contratti, quando dalla Confindustria venne l’altolà alla Montecatini e alla Pirelli. Seppi poi che l’altolà era partito dalla Fiat. Fu così che l’Eni, con l’Anic di Ravenna – dove allora (1957) si producevano, direttamente sopra i giacimenti del metano, fertilizzanti e gomma sintetica – entrò nel settore della chimica.

Ma perché la Fiat si opponeva alla joint venture? Essa non aveva interessi nella petrolchimica.

La risposta è in tutta la storia della Confindustria. Bisogna ricordare quanto ha raccontato il presidente della Chatillon, dr. Cicogna. La Chatillon era passata cinque o sei volte dai privati allo Stato e dallo Stato ai privati. Quando andava bene i privati la compravano, quando andava male essi la rivendevano allo Stato.

Questo bel gioco è durato a lungo e forse non è ancora finito. Quando io cominciai a muovere i primi passi come responsabile della conduzione dell’Eni, i nostri cugini dell’Iri, ed anche dell’Enel, apparivano felici di mettersi in fila per poter essere invitati a pranzo o per poter trascorrere un weekend con Agnelli o quanto meno con uno dei direttori generali della Fiat (o anche della Pirelli). Sembravano cioè tutti succubi dei grossi imprenditori privati, loro clienti o loro fornitori. Non perché fossero da loro ripagati in qualche altro modo, ma perché si sentivano abbagliati dal loro fulgore. Allora chi (fosse pure un ministro) veniva invitato a colazione da Agnelli (non so se ancora oggi sia così, ma ai tempi dei quali stiamo parlando era certamente così) si sentiva veramente privilegiato e largamente gratificato (“Ah, anch’io sono stato più volte ospite dell’avv. Agnelli!”).

Si spiega quindi come un Eni completamente privo di questo timore reverenziale fosse qualcosa del tutto inaccettabile e costituisse una inconcepibile offesa al principio “ognuno stia al suo posto”.

Si è però parlato di simpatia di Valletta verso Mattei e di preziosa neutralità della Fiat nella battaglia per l’istituzione dell’Eni e per il monopolio statale nella Pianura Padana.

È vero, è vero. Però, sempre, nel limite – come diceva Italo Pietra – di una sostanziale sudditanza. Da una parte c’erano i proprietari e dall’altra i fittavoli, che – se erano bravi – potevano anche essere premiati. Ai fittavoli si poteva anche permettere di sposare la figlia del padrone, però i ranghi dovevano restare ben distinti: il padrone di qua ed il fittavolo di là. Il giorno in cui uno osava rompere questo schema ed infrangere questa regola e si permetteva di autoconsiderarsi promosso al rango di… padrone, il gioco non era più valido e nasceva la guerra… ai bastardi della spregiata “razza padrona”.

All’atto della mia nomina a presidente dalla Montedison mi fu imposto di non far uscire la Montedison dalla Confindustria. Ancora oggi non mi so spiegare la ragione di tale richiesta cui, peraltro, fui ben lieto di aderire. Restando in Confindustria mi ritrovai a ricoprire in essa una posizione preminente: ne divenni vicepresidente.

Commisi però l’errore di non ricordarmi ben bene quello che doveva senpre essere il mio vero ruolo (che era poi quello che aveva avuto il mio predecessore alla presidenza della Montedison, l’Ing. Valerio), vale a dire quello di un “fittavolo”, anche se “grande fittavolo”, al servizio del padroni. Così quando venne il tenpo di nominare il presidente della Confindustria e mi fu indicato un nome (il prof. Visentini), io mi opposi; non perché non stimassi il personaggio e non lo ritenessi più che idoneo, ma perché mi era stato aggiunto: “Ne ho parlato con Fanfani ed anche lui si è dichiarato d’accordo” (il che sottintendeva la conclusione: “il discorso è chiuso”).

Il mio “no” scatenò l’ira di chi era allora il “padrone per eccellenza”. Nel “sacro tempio” della imprenditoria privata era appena appena sopportabile che una Montedison, considerata un ibrido tra impresa privata e impresa pubblica, avesse il suo rappresentante al vertice della confindustia. Ma che il presidente della Montedison, che proveniva dal reprobo mondo della partecipazioni statali, potesse addirittura condizionare la nomina del presidente della Confindustria non era assolutamente concepibile e tollerabile.

Il noto articolo di Eugenio Scalfari,“L’avvocato di panna montata”, diede l’ultima spinta all’orgoglio dell’avv. Agnelli e così fu scatenata la guerra, una guerra totale, senza possibilità di compromessi.

In quel periodo, come il libretto rosso di Mao era diventato il vademecum della contestazione e della riscossa degli studenti e degli operai, così il libro di Scalfari e Turani, Razza padrona, divenne il vademecum degli imprenditori privati spinti alla riscossa contro i “boiardi dell’industria di Stato”.

Perché Scalfari incitava Agnelli contro di lei?

Scalfari è un uomo molto intelligente e molto capace: egli era convinto che solo facendo arrabbiare Agnelli (che dava allora l’impressione di bere come rosolio tutto quello che lui gli raccontava) potevano crearsi le condizioni per rimettere in riga chi aveva osato sfidare l’establishment. E Scalfari lo faceva non per ragioni ideali e di principio, ma perché la Fiat era per lui una miniera d’oro inesauribile.

In passato, però, anche Scalfari aveva appoggiato la politica di Mattei.

Ci mancherebbe altro. Al momento del mio ritorno all’Eni dopo la morte di Mattei noi davamo diversi milioni all’anno all’“Espresso”. Poiché pure Scalfari si era permesso di attaccarci in più di un’occasione, io chiamai l’Ing. Accivile, che amministrava i fondi destinati alla pubblicità, e gli dissi: “Per piacere, informalo che, visto quanto va scrivendo sul nostro gruppo, d’ora in avanti noi rinunceremo all’appoggio redazionale del suo periodico”.

Ma quello che aveva offeso Scalfari non era stato questo fatto (Scalfari è un uomo di mondo, oltre che un uomo molto intelligente ed un bravissimo giornalista), ma il fatto che io non cercavo mai l’appoggio della stampa. Poiché io non mi curavo di blandire i giornalisti, con l’intento di indurli a scrivere bene su di me, essi si sentivano un po’ snobbati e quasi offesi. Io, per es., non rilasciavo mai interviste (non mi interessavano), anzi avevo disposto, tramite un’apposita circolare, che, se bisognava proprio parlare del presidente dell’Eni, non era il caso di citarne il nome, cosa che a me sembrava alquanto provinciale. Chi conosceva allora in Italia il nome del presidente della Ford o del presidente della Ibm? Adesso forse le cose sono cambiate, ma una volta si conoscevano e si nominavano queste e le altre grosse aziende, ma non si conoscevano, né si nominavano i loro massimi manager, noti solo ai pochi addetti ai lavori.

Per questa ragione a me non importava poi tanto se la stampa si occupava o non si occupava di me. E poiché questo atteggiamento appariva arrogante e sprezzante, non sorprende che la stampa – allora e dopo – abbia parlato di Cefis quasi soltanto per dirne male.

Adesso le racconto un ultimo particolare.

Quando io lasciai la Montedison molti furono sorpresi, ma non tutti. Enrico Cuccia, per esempio, era stato già da un anno e mezzo informato dalla mia intenzione di mollare tutto. Dopo rimanemmo buoni amici e lui ogni tanto veniva a trovarmi. “Lei qui, lei lì, lei mi ha tradito, lei mi ha lasciato solo” – mi diceva. Ed io allora gli ricordavo: “Dr. Cuccia, quante volte le avevo detto che io avevo deciso, tra lo stupore generale, di lasciare l’Eni e di venire alla Montedison perché desideravo trasferirmi a Milano. Ed ai miei collaboratori avevo fatto questo ragionamento: raddrizzare l’Eni è stato molto difficile, raddrizzare la Montedison sarà quasi impossibile. Le chances sono al 25% o al 30%. Il mio piano è: o in cinque anni la mettiamo a posto o io me ne vado. Se il piano fallisce non c’è ragione che io resti. Ora sta a voi: chi vuole raccogliere la sfida sa quali sono i rischi e può decidere se affrontarli o meno”.

Lei quindi conosceva bone la situazione della Montedison prima di prenderne la presidenza e non si trovò – come pure qualcuno ha ipotizzato – di fronte a problemi di imprevista gravità.

No, prima di decidere di comprarne le azioni, avevamo fatto alla Montedison una di quelle radiografia che non le dico. Negli archivi Eni troverà tutti gli studi fatti dagli uffici della Holding e da quelli della Mediobanca sui bilanci di dieci anni della Montecatini, della Edison e poi della Montedison ed i fascicoli di analisi impianto per impianto (obsolescenza, ammortamento, ecc.).

Ma perché aveva manifestato con tanto anticipo l’intenzione di mollare tutto? Si era ormai convinto che il risanamento era impossibile?

All’incirca un anno e mezzo prima delle mie dimissioni da presidente della Montedison avevo fatto al dr. Cuccia, più o meno, il discorso che ho ricordato (“Io non volevo fare più; il presidente dell’Eni perché volevo venire a Milano. C’era questa chance e me la sono presa. Le possibilità di risanare la Montedison erano minime. Se non riuscivo nell’intento me ne sarei andato. Fare infatti il presidente della Montedison solo per prendere lo stipendio e solo per il piacere di stare dietro una scrivania importante e di prestigio, era una cosa che non mi diceva niente”). In quel periodo c’era poi stata la scalata alla Montedison fatta da Nino Rovelli con i soldi dell’Eni. Dopo una serie di vicissitudini, nel sindacato, ove sedevano i rappresentanti dell’Eni e di Rovelli (quest’ultimo dietro l’esile paravento di due finanziarie fasulle: la Vicofico e la Euroamerica), si era venuta a creare una situazione più ridicola che tragica. Quindi il ritornello che ripetevo al dr. Cuccia suonava pressappoco così: “Cosa vuole che faccia? Che io resti qui a prendere direttive, sulle iniziative di risanamento e di rilancio della società, da due azionisti concorrenti quali l’Eni e Rovelli, che forse non aspettano altro che di riuscire a mandarmi in galera e di dividersi le spoglie della Montedison e quindi di brindare a champagne?”.

Ma perché l’ing. Girotti aveva deciso di realizzare una seconda scalata Eni alla Montedison nel frattempo ridiventata privata?

Non lo so: bisognerebbe chiederlo a lui.

Con riferimento agli attacchi rivoltile dalla stampa, ed in particolare da Eugenio scalfari, lei ha accennato a due discorsi da fare. Uno lo ha sviluppato a lungo: vuole svolgere anche l’altro che ha detto essere ancora più importante?

Certamente. Dopo che lasciai effettivamente la Montedison il dr. Cuccia mi disse: “Cefis, lei per me è stata la più grande delusione di questo mondo. Ce l’ho con lei non tanto perché mi ha tradito lasciandomi solo con la Montedison, quanto perché mi ero illuso che lei avrebbe fatto o diretto il colpo di Stato per sistemare l’Italia”.

Ha detto colpo di Stato?

Sì, ha inteso bene: “colpo di Stato”. “Dottor Cuccia – gli risposi – lei mi dice una cosa che mi fa piacere. Scalfari e Turani con il libro La razza padrona avevano dunque ragione. Lei mi conosce così bene come nemmeno mio padre ha potuto conoscermi (perché io al dr. Cuccia, come del resto a tutti, ho sempre detto quello che pensavo, convinto come sono che questa è la migliore forma di furbizia che ci sia) ed io non ho fatto niente, come presidente dell’Eni prima (dopo aver deciso la scalata alla Montedison) e come presidente della Montedison poi, che lei non conoscesse perfettamente nei minimi particolari. Conosce anche la mia vita privata. Come può aver pensato che io avessi mai voluto fare un colpo di Stato? Certo, se io ho dato a lei questa impressione, la colpa è tutta mia. E se questa è l’impressione che ho dato ad una persona che mi aveva potuto conoscere “nudo” e che avevo frequentato assiduamente per anni, cosa posso rimproverare a Scalfari ed a Turani per quanto hanno scritto su di me?”.

Chi altro avanzò quel sospetto su di lei?

Per esempio Piero Ottone. Ricordo che quando stava scrivendo il libro Il gioco dei potenti venne a chiedermi se volevo collaborare. “Ottone, per piacere, non dica facezie” fu la mia risposta. “Ma perché?” fece lui. “Scusi, lei vuole scrivere un libro per guadagnare dei soldi?”. “Certamente”. “E lei pensa di guadagnare dei soldi scrivendo bene di me?”. “No!”. “Ed allora come può volere che io l’aiuti a scrivere un libro che parli male di me?”.

Quando poi pubblicò il libro me ne mandò una copia con dedica. Alla fine del libro si legge più o meno: “Quest’uomo che voleva fare il colpo di Stato (almeno così tutti pensavano), ad un certo punto, inspiegabilmente, si è messo da parte”. Aveva ragione. Si vede che io gli avevo dato questa impressione.

Ma lei riteneva possibile, nelle condizioni dell’Italia di allora, la realizzazione di un colpo di Stato?

Io, da ex ufficiale in servizio permanente effettivo, ero profondamente convinto che se c’era una cosa impossibile in Italia, questa era proprio il colpo di Stato.

Un colpo di Stato si può fare in Grecia (dove, oltre ad Atene, c’è un unico centro importante, Salonicco), in Francia (dove, occupata Parigi, il resto del paese crolla), ma non è possibile in Italia, dove ci sono città come Roma, Napoli, Venezia, Torino, Bologna, Palermo, Catania, ecc., su un arco di 1.000 km.

Con le nostre poche divisioni di allora, schierate contro la Jugoslavia, che colpo di stato si poteva mai fare? Che si poteva fare? Un mese prima dal giorno x si caricavano sulle tradotte alpini e fanti, carri armati e vettovaglie e si disponevano ad Ovest fino a Torino ed a sud lungo le due sponde della penisola fin oltre Messina e Palermo, con tutto il paese che facesse ala ai convogli, mentre il più forte partito comunista d’Europa si domandava cosa stesse succedendo? È ridicolo più che inimmaginabile! E queste cose io le dicevo a Enrico Cuccia quando si parlava di questo argomento, che allora era sulla bocca di tanti. Ricordo che una volta eravamo stati a discuterne per tre quarti d’ora con Franco Briatico e con lo stesso Piero Ottone: era il periodo in cui, durante la presidenza Segni e la crisi del centrosinistra, si stava facendo un gran parlare di colpo di Stato e di non colpo di Stato. No, il colpo di Stato non era e non è concepibile in Italia. Se si pensa che tra Milano e Torino, allora, non c’erano neppure ottocento carabinieri a tenere sotto controllo mezza pianura padana, che razza di colpo di stato era possibile fare? In quelle condizioni, e per di più, come ho detto, con un forte partito comunista con cui dover fare i conti, solo un folle poteva immaginare di fare un colpo di Stato. Questo era impensabile e assurdo come voler rimettere il dentifricio nel tubetto dal quale è uscito: ci si impasticcia le mani senza combinare nulla.

Io però dovevo aver dato quell’impressione e quindi chi l’ha riportata o ne ha scritto ha fatto bene a farlo. Adesso devo lasciarla perché sono un po’ in ritardo. Non so se il colloquio le è servito. Se è stato utile e intende continuarlo, al mio ritorno si potrà fissare un altro appuntamento.

D’accordo. Sarà senz’altro utile l’approfondimento di alcuni temi. Grazie intanto per questa intervista che ha fornito interessanti elementi conoscitivi e preziosi spunti per ulteriori riflessioni.

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